TRIBUNALE DI TARANTO Ufficio del Giudice per le indagini preliminari Il Giudice per le indagini preliminari dott. Martino Rosati; Esaminata l'istanza depositata nella segreteria del P.M. - sede l'8 luglio 2015 dai difensori di «ILVA s.p.a. in a.s.», al fine di dare attuazione al disposto dell'art. 3, decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92; Esaminato il provvedimento del pubblico ministero, pervenuto in cancelleria il 9 luglio 2015, che ha trasmesso all'intestato Ufficio la predetta istanza, esprimendo parere contrario all'accoglimento della stessa e, in subordine, sollecitando il giudice a sollevare questione di legittimita' costituzionale del citato art. 3; Letti gli atti del procedimento; Premesso che si procede nei confronti di R. S. ed altri dirigenti e tecnici in servizio presso lo stabilimento «ILVA» di Taranto, tutti compiutamente generalizzati in atti, per le fattispecie di reato e le relative condotte di seguito sinteticamente descritte (vds., in dettaglio, la rubrica provvisoria contenuta nella richiesta di sequestro preventivo del pubblico ministero, da intendersi quivi integralmente trascritta): A. articoli 110 - 437, comma 1 e 2, codice penale, con particolare riferimento alla omissione della predisposizione di protezioni del tipo «cover» e di qualsiasi altro dispositivo idoneo a garantire l'incolumita' dei lavoratori presso l'altoforno 2 dello stabilimento «ILVA» di Taranto, in caso di proiezioni di materiale incandescente, nonche' alla omissione di strumentazioni per il prelievo della ghisa e la misurazione della relativa temperatura, idonee a garantire l'incolumita' dei lavoratori; omissioni da cui e' derivato l'infortunio mortale dell'operaio M. A.; in Taranto, l'8 giugno 2015, con permanenza; B. articoli 113 - 589, codice penale, per avere, in tal modo, e cosi' violando la normativa antinfortunistica, ed in particolare l'art. 71, decreto legislativo n. 81/2008, determinato il decesso dell'operaio M.; in Taranto, l'8 giugno 2015, con decesso avvenuto il ...; Che il procedimento si trova attualmente nella fase delle indagini preliminari; Che, in relazione a tali ipotesi di reato, il pubblico ministero, con proprio decreto del 18 giugno 2015, emesso ai sensi dell'art. 321, comma 3-bis, codice di procedura penale, ha disposto il sequestro preventivo d'urgenza, senza facolta' d'uso, dell'altoforno «Afo2» presso lo stabilimento «ILVA» s.p.a. in a.s. di Taranto, ravvisando le esigenze cautelari di cui ai commi 1 e 2 dei medesimo art. 321; Che, con ordinanza del 29 giugno 2015, resa ai sensi dell'art. 321, comma 3-ter, codice di procedura penale (e che si allega, quale parte integrante del presente atto), il sottoscritto giudice per le indagini preliminari ha convalidato il decreto del pubblico ministero ed ha disposto il sequestro preventivo del medesimo impianto, parimenti senza facolta' d'uso; Che, con decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 153 ed entrato in vigore lo stesso giorno, e' stato cosi' disposto: «Art. 3 - Misure urgenti per l'esercizio dell'attivita' di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario. 1. Al fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonche' delle finalita' di giustizia, l'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro, come gia' previsto dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori. 2. Tenuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell'ipotesi di cui al comma 1, l'attivita' d'impresa non puo' protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro. 3. Per la prosecuzione dell'attivita' degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuita', l'impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro. L'avvenuta predisposizione del piano e' comunicata all'autorita' giudiziaria procedente. 4. I1 piano e' trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell'INAIL competenti per territorio per le rispettive attivita' di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste nel piano (...). 5. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro gia' adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data.»; Che, con la suddetta istanza dello scorso 8 luglio, i difensori di «ILVA s.p.a. in a.s.» hanno chiesto al pubblico ministero di «adottare i provvedimenti ritenuti di competenza ovvero, se del caso, richiedere l'intervento dell'organo giurisdizionale della fase», deducendo in sintesi: a) che tale decreto-legge non tocca il vincolo cautelare reale, ma si limita a modificarne i profili esecutivi, realizzando un sospensione ex lege dell'esecuzione del sequestro; b) che si tratta percio' di materia riservata al pubblico ministero; c) che il provvedimento dell'autorita' giudiziaria ha carattere meramente dichiarativo, come si evince dal fatto che quella norma abbia previsto la prosecuzione dell'attivita' d'impresa senza soluzione di continuita' e soltanto un obbligo di comunicazione all'autorita' giudiziaria del piano di intervento; Che il pubblico ministero ha declinato la propria competenza a decidere, limitandosi ad esprimere un parere contrario all'accoglimento dell'istanza, rimettendo gli atti per la decisione al giudice per le indagini preliminari e, a tal fine, deducendo: a) che il predetto decreto non puo' caducare ipso iure il provvedimento di sequestro in atto, realizzandosi, altrimenti, un'ingerenza del potere legislativo nelle prerogative di quello giudiziario; b) che la competenza a decidere spetta al giudice per le indagini preliminari, quale autorita' che ha emesso il decreto di sequestro, poiche' il decreto-legge non incide su profili meramente esecutivi della misura cautelare, bensi' «sulla sostanza» del provvedimento; c) che la disciplina introdotta dal decreto-legge non puo' trovare applicazione nel caso di specie, perche' essa attiene all'ipotesi in cui il sequestro preventivo «impedisca» l'esercizio dell'attivita' d'impresa, mentre tale situazione non ricorre nel caso specifico, non avendo gli istanti addotto «adeguate motivazioni ... circa l'impossibilita' di proseguire l'intera attivita' dello stabilimento in costanza di vincolo cautelare sul solo altoforno afo2», ed anzi avendo evidenziato il custode giudiziario, con nota dell'8 luglio u.s., che «lo spegnimento di AFO2 ... avrebbe determinato un dimezzamento dell'attuale livello produttivo, e non l'interruzione dell'attivita' produttiva nel suo complesso»; Che, in via subordinata, il pubblico ministero ha proposto eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, in relazione: a) all'art. 41, Cost., nella parte in cui quest'ultimo specifica che l'iniziativa economica non puo' svolgersi in modo da arrecare danno alla dignita' umana; b) agli articoli 2, 3, 4, 9, 32, 35, Cost., trattandosi di disposizione di legge lesiva di diritti inviolabili dell'uomo, primo fra tutti quello alla vita ed alla salute, e comportando, quale effetto diretto, lo svolgimento di attivita' lavorativa in condizioni di rischio e di non sicurezza per i lavoratori e, conseguentemente, la non effettivita' dell'esercizio del diritto al lavoro; in particolare, il suddetto decreto, riconoscendo solo all'impresa il compito predisporre unilateralmente un piano di misure aggiuntive, senza la possibilita' di sindacato alcuno, di fatto non realizzerebbe un bilanciamento ragionevole tra il diritto alla salute ed all'ambiente salubre, da un lato, ed il diritto all'iniziativa economica privata, dall'altro; c) all'art. 77, comma 2, Cost., mancando il presupposto della straordinaria necessita' ed urgenza, che giustifica l'esercizio del potere legislativo da parte del Governo; d) agli articoli 112 e 104, Cost., nella parte in cui il suddetto decreto consente, pur a fronte di un perpetrarsi di attivita' illecita da parte dell'impresa, di continuare la propria attivita' per dodici mesi, sul presupposto della mera comunicazione e predisposizione unilaterale e insindacabile di un piano di intervento, senza possibilita' per gli organi di controllo, anch'essi arbitrariamente individuati, ne' per la stessa autorita' giudiziaria di sindacare o sollecitare misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle individuate dall'impresa; Rileva 1. Sulla competenza a decidere del G.I.P. La materia del sequestro preventivo, in ordine alla ripartizione delle competenze tra giudice e pubblico ministero, presenta, gia' di per se', un tratto peculiare. Accanto alla disposizione dell'art. 92, disp. att., codice di procedura penale, che e' comune a tutte le misure cautelari ed individua nel pubblico ministero l'organo che ne cura l'esecuzione nel corso delle indagini preliminari, trova applicazione, infatti, anche l'art. 321, comma 3, secondo periodo, codice di procedura penale: il quale - com'e' noto - assegna a quell'autorita' giudiziaria, in tale fase del procedimento, la competenza a disporre pure la revoca del sequestro. Si tratta, dunque, dell'unico caso, nell'ambito del vigente rito penale, in cui il provvedimento di un'autorita' giudiziaria possa essere revocato una diversa autorita' giudiziaria, nell'ambito della medesima fase procedimentale ed al di fuori di una procedura d'impugnazione. Ma non solo: si tratta dell'unica ipotesi in cui un provvedimento di un giudice possa essere revocato dall'autorita' giudiziaria inquirente, ovvero da una parte del processo (quantunque, in quella fase, non ancora formalmente tale, ma destinata a divenirlo, in caso di esercizio dell'azione penale). E a tale determinazione, a riprova dell'ampia potesta' riconosciuta in tale materia al pubblico ministero, questi puo' giungere finanche di propria iniziativa e senza neppure l'onere di darne informazione al giudice che aveva adottato la misura. A complicare la questione, negli anni, ci ha pensato la giurisprudenza, ritenendo possibile concedere, agli indagati o ad altri aventi titolo, la c.d. facolta' d'uso del bene oggetto di sequestro, pur nella perdurante vigenza del vincolo giudiziario, in tal modo svuotando quest'ultimo del suo contenuto tipico e qualificante: l'indisponibilita', ossia, del bene staggito. La situazione, poi, e' divenuta quant'altre mai intricata, quando il legislatore, appropriandosi di tale istituto di creazione pretorile, ha pensato bene di elevare la facolta' d'uso, in determinate situazioni, a regula iuris di ordine generale, peraltro applicabile a misure gia' in atto. In tal modo, ha partorito una figura giuridica sui generis, tale da mettere in difficolta' - per venire al caso specifico - non soltanto il P.M. od il giudice da questi investito, ma, ancor prima, gli stessi difensori istanti: che, infatti, scegliendo di rivolgersi all'autorita' inquirente, si sono comunque tenuti sul vago, chiedendole - come s'e' visto - di «adottare i provvedimenti ritenuti di competenza ovvero, se del caso, richiedere l'intervento dell'organo giurisdizionale della fase». Per capire a chi spetti fare cosa, allora, e' indispensabile, anzitutto, trovare all'eccentrica disciplina introdotta dall'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015 una soddisfacente collocazione sistematica all'interno dell'ordinamento. Ebbene, volendo utilizzare categorie giuridiche gia' note, sembra potersi concludere che, attraverso le previsioni contenute dei relativi commi 2 e 3, il legislatore, nel caso di imprese di interesse strategico nazionale, abbia sottoposto il sequestro ad una condizione sospensiva negativa e ad un termine dilatorio eventuale: la prima, ossia, consiste nella mancata predisposizione, da parte dell'impresa, entro trenta giorni dal provvedimento, di un piano di intervento (comma 3); il secondo, invece, stabilisce la durata massima dell'esercizio dell'attivita' d'impresa nonostante il vincolo (comma 2). La legislazione d'urgenza, ossia, non tocca l'esistenza o la validita' del provvedimento giudiziario cautelare, ma ne sospende l'efficacia, subordinandola ad una condizione e differendola non oltre un dato termine. Ne consegue, ai fini in discorso, che il provvedimento giudiziario destinato ad applicare tale dettato normativo ad un decreto di sequestro gia' in atto non incide soltanto sulle modalita' esecutive di' quest'ultimo, sul quomodo, ossia, della relativa esecuzione; bensi' attiene all'an della stessa, ovvero alla esecutivita' del titolo. Appare, dunque, coerente con i principi del nostro rito penale che detto provvedimento ulteriore venga adottato dal giudice che ha disposto il sequestro, e non dall'organo, qual e' il pubblico ministero, chiamato soltanto a provvedere ai relativi adempimenti esecutivi: «salvo diversa disposizione di legge - recita, infatti, l'art. 665, comma 1, codice di procedura penale - competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento e' il giudice che lo ha deliberato». 2. Sulla procedura da seguire. Spetta, dunque, al giudice per le indagini preliminari, in quanto organo che ha adottato il provvedimento di sequestro, decidere sull'istanza avanzata dai difensori di «ILVA», con cui si invoca la sospensione dell'efficacia di tale titolo cautelare e la consequenziale prosecuzione dell'attivita' d'impresa. Resta da stabilire con quale procedura. Poiche' il provvedimento di sequestro, come tutte le misure cautelari, e', in via generale, immediatamente esecutivo, tanto che neppure la proposizione del riesame ne sospende l'esecuzione (art. 322, comma 2, c.p.p.), le questioni relative a quest'ultima, com'e' quella in rassegna, non possono che essere trattate nelle forme previste per i cc.dd. incidenti di esecuzione (libro X, titolo III, capo I, articoli 665 ss., codice di procedura penale). Nell'ambito di tale disciplina di rito, poi, si ritiene che debba essere adottata la procedura semplificata di cui all'art. 667, comma 4 («il giudice dell'esecuzione provvede in ogni caso senza formalita' con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all'interessato»), in considerazione dell'espresso richiamo alla stessa, operato dal successivo art. 676, comma 1. Quest'ultima norma, infatti, prevede che tale procedura de plano sia adottata dal giudice, allorche' sia chiamato a decidere, tra le altre ipotesi, «in ordine ... alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate». E' ben vero che, a stretto rigore, la decisione odierna non rientra in nessuna di queste due ipotesi; tuttavia, in assenza di una differente e specifica disposizione sul rito, non puo' che utilizzarsi, quale riferimento, l'unica che attenga ex professo alla sorte delle cose sequestrate: una norma, ossia, che, se e' tale da offrire sufficiente garanzia allorche' si tratti di decidere dell'ablazione definitiva di un bene (confisca) o del totale venir meno del vincolo (restituzione), ben puo' essere reputata tale anche quando si controverta soltanto dell'efficacia o meno del sequestro. L'irripetibile singolarita' del caso concreto, infine, determinata dal sopraggiungere in corsa del decreto-legge, dalla peculiarita' del suo contenuto e dalle conseguenti incertezze sul rito, anche da parte degli stessi avvocati istanti, ha fatto si' che l'odierno giudicante si trovi a decidere dopo aver acquisito un parere da parte del pubblico ministero, ovvero a seguito di un - pur parziale ed embrionale - contraddittorio anticipato, e non successivo, come invece prevede l'art. 667, comma 44, citato. In proposito, tuttavia, poiche' comunque nessuna disposizione vieta al giudice di acquisire, in quei casi, il parere dell'autorita' inquirente, nessun vizio di procedura puo' ritenersi verificato nel caso specifico, tanto piu' che un siffatto parere non e' stato neppure richiesto dal giudice. 3. Sulla rilevanza dell'art. 3, decreto-legge n. 92/2015, ai fini della decisione. La Procura della Repubblica ha espresso parere contrario all'accoglimento dell'istanza difensiva, sul presupposto che la disciplina contenuta nell'art. 3 del decreto-legge debba trovare applicazione soltanto nel caso in cui il sequestro impedisca - id est: renda impossibile - l'esercizio dell'attivita' d'impresa: effetto, quest'ultimo, che invece non si produrrebbe nell'ipotesi specifica. In effetti, attenendosi a quello che l'art. 12, comma 1, delle Preleggi indica quale primo criterio interpretativo, quello, ossia, per cui alla legge «non si puo' attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», la lettura proposta dal pubblico ministero non si presenta affatto peregrina, ed anzi finirebbe per rendere il contenuto della norma in questione meno stridente rispetto al dettato costituzionale (come meglio si dira' di qui a breve). Invero, nei primi due commi, l'art. 3 si riferisce testualmente alla «attivita' d'impresa» ed agli «stabilimenti» di interesse strategico, si' da rendere plausibile un'interpretazione che mantenga al di fuori del relativo perimetro applicativo le ipotesi, come quella in esame, in cui il sequestro riguardi soltanto un impianto dello stabilimento e l'attivita' produttiva di quest'ultimo, sebbene a volumi ridotti, possa proseguire (vds. nota del custode, cit. in premessa). Tuttavia, seppur reso meno nitido da una tecnica normativa impropria (determinata probabilmente dalla fretta, notoriamente cattiva consigliera), il significato della norma va inteso nel senso dell'applicabilita' di essa ai sequestri comunque riguardanti stabilimenti di interesse strategico nazionale: anche quando, ossia, tali misure cautelari attingano, nel concreto, non l'intero stabilimento, bensi' soltanto singoli impianti, e non comportino necessariamente l'interruzione dell'attivita' d'impresa. Nel comma 3, infatti, si fa espresso riferimento a «impianto oggetto del provvedimento di sequestro»; e cosi', pure, nel comma 4, a riprova del fatto che la normativa d'urgenza operi anche per i sequestri di porzioni di stabilimento, si parla di «aree di produzione oggetto di sequestro». Ma, soprattutto, inequivoco, in quel senso, si presenta l'esplicito richiamo al primo esperimento di una normativa di tal fatta, adottata, anche in quel caso, con specifico riguardo allo stabilimento «ILVA» di Taranto: «come gia' previsto dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231». Detto art. 1, infatti, dopo aver attribuito al Ministro dell'ambiente, al comma 1, la possibilita' di autorizzare, a date condizioni, la prosecuzione dell'attivita' produttiva per un periodo di tempo determinato, prevede, al successivo comma 4, che «le disposizioni di cui al comma 1 trovano applicazione anche quando l'autorita' giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento", e che, in tal caso, "i provvedimenti di sequestro non impediscono... l'esercizio dell'attivita' d'impresa a norma del comma 1». Il riferimento a tale disciplina, contenuto nell'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015, si rivela, quindi, innanzitutto, atecnico ed approssimativo, poiche' il comma 4 dell'art. 1 del decreto-legge del 2012 contiene, a sua volta, un rinvio per relationem ad ulteriore e dettagliata normativa (quella, ossia, di cui al comma 1 del medesimo articolo, peraltro attinente a materia differente rispetto alla sicurezza dei lavoratori), invece assente nel decreto-legge n. 92. In secondo luogo, esso finisce per risultare - absit iniuria - piuttosto grossolano, ponendo l'accento, piu' che sui contenuti del precedente normativo evocato (con formule del tipo «ai sensi di ...», «in quanto applicabile ...», od altre similari e solitamente utilizzate in casi analoghi), sul sol fatto dell'esistenza di esso («come gia' previsto ...»). Tuttavia, pur con questi suoi vizi originari, tale richiamo rende palese l'intento del Governo-legislatore nel senso dianzi sostenuto, conducendo alla conclusione per cui - a differenza di quanto sostenuto dal pubblico ministero nel suo parere - nel campo di applicazione dell'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015 rientri anche il sequestro emesso nei presente procedimento. La relativa disciplina, dunque, e' rilevante - essenziale, anzi - ai fini della decisione sull'istanza avanzata dai difensori di «ILVA» e devoluta alla cognizione dell'odierno giudicante, sicche' ne e' indispensabile la verifica di costituzionalita'. 4. Sulla legittimita' costituzionale dell'art. 3, decreto-legge n. 92/2015. Dunque, secondo l'interpretazione piu' plausibile, nonche' certamente corrispondente all'interno del Governo che l'ha emanato (basti pensare, a tacer d'altro, al ristrettissimo lasso temporale, appena 5 giorni, trascorso dal decreto emesso dal sottoscritto giudice), l'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015 trova applicazione nella concreta fattispecie oggetto del presente procedimento. Sia detto per inciso. Chi scrive e' perfettamente consapevole che, nel tempo necessario per il giudizio da parte della Corte costituzionale, il Parlamento, con ogni verosimiglianza, sara' gia' intervenuto, emendando con la legge di conversione - c'e' da auspicarsi - quella che, se la necessita' di decidere in fretta non inganna, appare una siderale divergenza della norma in rassegna rispetto a vari principi costituzionali. Tuttavia, poiche' e' chiamato a decidere qui ed ora, e poiche', allo stato delle cose, la normativa vigente e' quella introdotta con tale decretazione d'urgenza, il giudice non ha alternative rispetto alla proposizione della questione di legittimita' costituzionale, laddove - come nella specie - i relativi dubbi non appaiano manifestamente infondati. 4.1. Liberando subito il campo da qualsiasi infingimento, e' chiaro a tutti, non foss'altro che per l'anzidetta sequenza cronologica, che il predetto art. 3 e' stato in tutta fretta varato dal Governo con l'obiettivo, almeno in via principale, di neutralizzare gli effetti del sequestro dell'altoforno «Afo/2» dello stabilimento «ILVA» di Taranto, disposto da quest'ufficio lo scorso 29 giugno. E lo sbrigativo richiamo all'analoga legge-provvedimento del 2012, contenuto nell'ultima parte del comma 1 di tale articolo («come gia' previsto da ...»), non puo' non essere letto come Io strumento utilizzato dal Governo per stabilire una relazione di simmetria con quel precedente testo normativo, che, come quest'ultimo, era intervenuto a sterilizzare, nella sostanza, gli effetti di un sequestro preventivo disposto dall'autorita' giudiziaria. Non e' dato di sapere - e nulla importa, in verita' - all'odierno giudicante se, nelle intenzioni dell'Esecutivo, quel richiamo dovesse servire anche ad estendere alla norma in questione quella copertura di costituzionalita' che il Giudice delle leggi ha riconosciuto al decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, con la nota sentenza n. 85 del 2013. Gli e', pero', che, se cosi' fosse, verrebbe da dire che, mai come in questo caso, il risultato ha tradito le aspettative. E' sufficiente leggere quel giudicato, infatti, per cogliere all'evidenza come al giudizio di legittimita' costituzionale degli articoli 1 e 3 del decreto-legge del 2012 la Corte costituzionale sia pervenuta soltanto in ragione della rilevata presenza, in quel caso, di specifici contrappesi normativi, che l'hanno condotta a reputare ragionevole il pur ravvisato sacrificio di beni costituzionalmente rilevanti (primo fra tutti, il diritto alla salute), in vista della soddisfazione di interessi di pari rango. In particolare, la Corte ha rinvenuto tale punto di equilibrio nel fatto che la prosecuzione dell'attivita' d'impresa sia stata, in quel caso, subordinata al rispetto, da parte dell'azienda, delta c.d. «AIA» (acronimo che sta per «autorizzazione integrata ambientale»): ovvero di un provvedimento amministrativo, soggetto, come tale, agli ordinari rimedi giurisdizionali tipici; redatto con la partecipazione di una pluralita' di amministrazioni pubbliche provviste delle relative competenze, anche di ordine tecnico; che, inoltre, quanto ai contenuti, impegna l'azienda all'adeguamento degli impianti, con le cadenze cronologiche ivi imposte, alle migliori tecniche disponibili; e per la cui effettiva attuazione, infine, e' stato predisposto un articolato apparato di controllo e sanzionatorio, addirittura ulteriore rispetto a quello previsto dalla legislazione ordinaria. Per comprendere quanto impervio e complesso sia stato il percorso attraverso il quale il Giudice delle leggi e' giunto a tale approdo, e che non puo' certo essere richiamato con un generico «come gia' previsto da ...» puo' forse essere utile riportare alcuni dei passaggi piu' significativi di quella sentenza, che paiono proprio tracciare un solco incolmabile tra i due testi normativi, tenendo irrimediabilmente al di fuori del perimetro di costituzionalita' il decreto-legge n. 92: «Premessa generale dell'applicabilita' della norma in questione e' che vi sia stata la revisione dell'autorizzazione integrata ambientale (...). L'autorita' competente rilascia l'AIA solo sulla base dell'adozione, da parte del gestore dell'impianto, delle migliori tecnologie disponibili (MTD), di cui l'amministrazione deve seguire l'evoluzione. (...) L'art. 1 del decreto-legge n. 207 del 2012, al comma 2, stabilisce inoltre: «E' fatta comunque salva l'applicazione degli articoli 29-octies, comma 4, e 29-nonies e 29-decies del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni». (...) E' utile ricordare che il citato art. 29-decies del codice dell'ambiente (esplicitamente richiamato dalla norma censurata) prevede una serie di controlli e interventi, a cura delle autorita' competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente intensita', in rapporto alla gravita' delle eventuali violazioni accertate. In particolare: 1) i dati forniti dal gestore relativi ai controlli sulle emissioni richiesti dall'AIA sono messi a disposizione del pubblico, secondo le procedure previste dall'art. 29-quater (pubblicazione su quotidiani ed indicazione, su tali organi di stampa, degli uffici dove e' possibile consultare la documentazione relativa); 2) l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) deve accertare: a) il rispetto delle condizioni poste dall'AIA; b) la regolarita' dei controlli a carico del gestore, con particolare riferimento alla regolarita' delle misure e dei dispositivi di prevenzione dell'inquinamento nonche' al rispetto dei valori limite di emissione; c) l'osservanza da parte del gestore degli obblighi di comunicazione periodica dei risultati della sorveglianza sulle emissioni del proprio impianto, specie in caso di inconvenienti o incidenti che influiscano in modo significativo sull'ambiente. Possono essere disposte ispezioni straordinarie sugli impianti autorizzati alla prosecuzione dell'attivita'. E' previsto altresi' l'obbligo del gestore di fornire tutta l'assistenza tecnica necessaria per lo svolgimento di qualsiasi verifica relativa all'impianto, per prelevare campioni o per raccogliere qualsiasi informazione necessaria. Gli esiti dei controlli e delle ispezioni devono essere comunicati all'autorita' competente ed al gestore, indicando le situazioni di mancato rispetto delle prescrizioni e proponendo le misure da adottare. Ogni organo che svolge attivita' di vigilanza, controllo, ispezione e monitoraggio sugli impianti e che abbia acquisito informazioni in materia ambientale, rilevanti ai fini dell'applicazione delle norme del codice dell'ambiente, comunica tali informazioni, ivi comprese le eventuali notizie di reato, all'autorita' competente. I risultati del controllo delle emissioni richiesti dalle condizioni dell'AIA devono essere messi a disposizione del pubblico. In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione, l'autorita' competente procede, secondo la gravita' delle infrazioni: a) alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere eliminate le irregolarita'; b) alla diffida e contestuale sospensione dell'attivita' autorizzata per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per l'ambiente; c) alla revoca dell'AIA e alla chiusura dell'impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni, che determinino situazioni di pericolo o di danno per l'ambiente. Occorre ancora porre in rilievo che l'art. 29-quattuordecies prevede sanzioni a carico di chi viola le prescrizioni dell'AIA, o quelle comunque imposte dall'autorita' competente, salvo che il fatto costituisca piu' grave reato (riferimento, quest'ultimo, che si risolve anche nel richiamo alle fattispecie del diritto penale comune) (...). Non solo la disposizione censurata non stabilisce alcuna immunita' penale per il periodo sopra indicato, ma, al contrario, (...) le espressioni usate dal legislatore - «fatta salva», «fermo restando» - si riferiscono in modo evidente ad una disciplina normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle preesistenti sanzioni amministrative e penali, la fattispecie introdotta dal comma 3 del citato art. 1, ovviamente dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. I motivi di tale aggravamento di responsabilita' si possono rinvenire nell'esigenza di prevedere una reazione adeguata delle autorita' preposte alla vigilanza ed ai controlli rispetto alle eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA da parte di una impresa, gia' responsabile di gravi irregolarita', cui e' stata concessa la prosecuzione dell'attivita' produttiva e commerciale a condizione che la stessa si adegui scrupolosamente alle suddette prescrizioni. (...) Se si leggono tali previsioni in combinazione con quelle che dispongono la perdurante applicabilita', nel corso dei 36 mesi, delle sanzioni amministrative e penali vigenti, si giunge alla conclusione che non solo non vi e' alcuna sospensione dei controlli di legalita' sull'operato dell'impresa autorizzata alla prosecuzione dell'attivita', ma vi sono un rafforzamento ed un allargamento dei controlli sull'osservanza delle prescrizioni contenute nell'AIA riesaminata. (...) La distinzione tra la situazione normativa precedente all'entrata in vigore della legge ... e l'attuale disciplina consiste nel fatto che l'attivita' produttiva e' ritenuta lecita alle condizioni previste dall'AIA riesaminata. Quest'ultima fissa modalita' e tempi per l'adeguamento dell'impianto produttivo rispetto alle regole di protezione dell'ambiente e della salute, entro il periodo considerato, con una scansione graduale degli interventi, la cui inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile ai sensi delle leggi vigenti. In conclusione sul punto, la norma censurata ... traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell'occupazione, cioe' tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. (...) La ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all'ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non e' possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. (...) Ne' la definizione data da questa Corte dell'ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una «rigida» gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come «primari» dei valori dell'ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorche' costituzionalmente tutelati, non gia' che gli stessi siano posti alla sommita' di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perche' dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato - dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo - secondo criteri di proporzionalita' e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale. (...) L'autorizzazione al proseguimento dell'attivita' produttiva e' subordinata, dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 207 del 2012, all'osservanza delle prescrizioni dell'AIA riesaminata. La natura di tale atto e' amministrativa, con la conseguenza che contro lo stesso sono azionabili tutti i rimedi previsti dall'ordinamento per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il richiamo operato in generale dalla legge ha il valore di costante condizionamento della prosecuzione dell'attivita' produttiva alla puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio, che costituisce l'esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento, nel quale, in conformita' alla direttiva n. 2008/1/CE, devono trovare simultanea applicazione i principi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l'intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell'AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di pubblicita', rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all'individuazione del punto di equilibrio in ordine all'accettabilita' e alla gestione dei rischi, che derivano dall'attivita' oggetto dell'autorizzazione. Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell'efficacia delle prescrizioni. Cio' chiama in causa la funzione di controllo dell'amministrazione, che si avvale dell'ISPRA, con la possibilita' che, in caso di accertata inosservanza da parte dei gestori degli impianti, si applichino misure che vanno - come gia' rilevato sopra - sino alla revoca dell'autorizzazione, con chiusura dell'impianto ... (...) In definitiva, l'AIA riesaminata indica un nuovo punto di equilibrio, che consente, secondo la norma censurata nel presente giudizio, la prosecuzione dell'attivita' produttiva a diverse condizioni, nell'ambito delle quali l'attivita' stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell'impresa interessata, le cause dell'inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni. (...) L'individuazione del bilanciamento, che da' vita alla nuova AIA, e', come si e' visto, il risultato di apporti plurimi, tecnici e amministrativi, che puo' essere contestato davanti al giudice competente, nel caso si lamentino vizi di legittimita' dell'atto da parte di cittadini che si ritengano lesi nei loro diritti e interessi legittimi. (...) Il punto di equilibrio contenuto nell'AIA non e' necessariamente il migliore in assoluto - essendo ben possibile nutrire altre opinioni sui mezzi piu' efficaci per conseguire i risultati voluti - ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall'ordinamento quanto all'intervento di organi tecnici e del personale competente; all'individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicita' dell'iter formativo, che mette cittadini e comunita' nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimita', i loro punti di vista. (...) In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 del decreto-legge n. 207 del 2012 determina le condizioni e i limiti della liceita' della prosecuzione di un'attivita' produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento ... di interesse strategico nazionale abbia procurato inquinamento dell'ambiente, al punto da provocare l'intervento cautelare dell'autorita' giudiziaria. La normativa censurata non prevede, infatti, la continuazione pura e semplice dell'attivita', alle medesime condizioni che avevano reso necessario l'intervento repressivo dell'autorita' giudiziaria, ma impone nuove condizioni, la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della salute e dell'ambiente. Essa e' pertanto ispirata alla finalita' di attuare un non irragionevole bilanciamento tra i principi della tutela della salute e dell'occupazione, e non al totale annientamento del primo. (...) Tanto la norma generale appena richiamata, quanto quella particolare riferentesi all'ILVA di Taranto, ... autorizzano la prosecuzione dell'attivita' per un periodo determinato ed a condizione dell'osservanza delle prescrizioni dell'AIA riesaminata. La ratio delle due discipline e' dunque che si proceda ad un graduale, intenso processo di risanamento degli impianti, dal punto di vista delle emissioni nocive alla salute e all'ambiente, senza dover necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento, con conseguente nocumento per l'attivita' economica, che determinerebbe a sua volta un elevato incremento del tasso di disoccupazione, gia' oggi difficilmente sostenibile per i suoi costi sociali. Se l'adeguamento della struttura produttiva non dovesse procedere secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo, sarebbe cura delle autorita' amministrative preposte al controllo - e della stessa autorita' giudiziaria, nell'ambito delle proprie competenze - di adottare tutte le misure idonee e necessarie a sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze.». 4.2. Se le cose stanno cosi', non occorre chissa' quale impegno speculativo per rilevare che, invece, nel decreto-legge n. 92, tutto quello che la Corte chiede, al fine di ritenere realizzato un ragionevole bilanciamento tra interessi costituzionali in conflitto tra loro, e' completamente assente: manca perfino il riferimento ad un provvedimento, mutatis mutandis, analogo all'AIA, che - val la pena tenerlo a mente - rappresenta niente di piu' che il presupposto minimo, e percio' ineludibile, per l'accettabilita' costituzionale di simili norme di legge («il punto di equilibrio contenuto nell'AIA non e' necessariamente il migliore in assoluto ... ma deve presumersi ragionevole»). Nell'art. 3, infatti, per le ipotesi, come quella in esame, di sequestri relativi ad impianti di interesse strategico nazionale ed a reati inerenti alla sicurezza dei lavoratori, l'Esecutivo ha posto soltanto due limiti alla prosecuzione dell'attivita' d'impresa: uno di tipo meramente cronologico, ovvero la durata non superiore ad un anno; l'altro, consistente nell'onere, da parte dell'impresa, in un dato termine, di predisporre un «piano recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro». Punto. Nulla si dice, innanzitutto, sulla natura di tali «misure aggiuntive»: che quindi potrebbero essere rappresentate, in ipotesi, anche soltanto da meri cartelli di segnalazione, dispositivi di protezione individuale, prassi operative od altri strumenti (come i rudimentali ed estemporanei pannelli metallici che l'ILVA s'e' affrettata a piazzare dopo la tragedia morte dell'operaio M. del tutto insufficienti a garantire adeguatamente la sicurezza dei lavoratori (sul punto, sia consentito rinviare al decreto di sequestro preventivo del 29 giugno scorso). Non si esplicita, in particolare, a differenza di quanto e' stato previsto con l'AIA per la materia ambientale, l'obbligo per l'azienda, seppur diluito in un termine piu' o meno consistente, che le «misure aggiuntive» siano quelle conformi alle migliori tecnologie disponibili (le quali - anche qui e' bene ricordarlo - rappresentano il parametro di riferimento sia per quanto concerne la fattispecie di cui all'art. 437, codice penale, che per il dovere di diligenza necessario ad escludere la responsabilita' nei reati colposi, come appunto quello di cui all'art. 589, codice penale). Ne deriva che il dettato del cit. art. 3 risulterebbe rispettato, con conseguente diritto alla prosecuzione dell'attivita' produttiva, pur quando esse fossero del tutto inadeguate od insufficienti. Ancor prima, anzi, non e' contemplata alcuna forma di partecipazione, da parte delle competenti amministrazioni pubbliche, nella elaborazione del piano di intervento aziendale, in completa distonia, anche sotto questo profilo, rispetto alla complessa procedura prevista dalla legge per l'AIA. Ed ancora: nessuna forma di controllo e' stata prevista non solo - come s'e' appena detto - sui contenuti del piano aziendale, ma, addirittura, neppure sull'effettiva attuazione dello stesso. Infatti, l'azienda e' stata onerata (nemmeno obbligata, con le eventuali sanzioni correlate) soltanto di comunicare il piano ad alcune autorita' amministrative, mentre all'autorita' giudiziaria procedente - chissa' perche' - neppure quello, bensi' soltanto la notizia dell'avvenuta predisposizione di esso. In ogni caso, se e' previsto che Vigili del fuoco, ASL ed INAIL, ciascuno per le rispettive competenze, «devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste nel piano», nulla e' detto per il caso in cui, all'esito di tali loro attivita', quegli enti accertino l'insufficienza o l'inadeguatezza degli interventi aziendali, od anche, semplicemente, la mancata realizzazione di quanto indicato nel piano. Non e' riconosciuta, ossia, ne' a tali istituzioni di controllo, e men che mai ad un giudice, ordinario od amministrativo che voglia essere, la potesta' di sollecitare l'integrazione di tali misure o di applicare qualsivoglia tipo di sanzione. Manca, dunque, pure la predisposizione di un apparato sanzionatorio, invece previsto dal decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, ed anzi da questo rafforzato, che, nella trama argomentativa della Corte costituzionale, ha rappresentato uno dei punti qualificanti per individuare nell'AIA, cosi' congegnata, l'accettabile punto di equilibrio per il sacrificio dei diritti della persona costituzionalmente protetti. Se, allora, ci si sofferma, e nemmeno troppo, sulla disciplina introdotta dalla norma qui in rassegna, e' agevole notare com'essa contenga un meccanismo di paralisi degli effetti di un provvedimento di sequestro dell'autorita' giudiziaria, attivabile ad nutum dal destinatario dei medesimo, col solo onere di comunicarlo ad alcuni enti. E' oggi consentito per legge, ossia, nell'ordinamento italiano, che un'azienda, se d'interesse strategico nazionale, possa continuare a svolgere la propria attivita', anche quando tale esercizio sia suscettibile di aggravare o protrarre le conseguenze di un reato, se non addirittura - come nella specifica ipotesi oggetto di giudizio - costituisca esso stesso reato, e che cio' essa possa fare per un anno, soltanto limitandosi a predisporre e comunicare un piano di interventi ad alcuni enti pubblici, che non possono nemmeno sindacarne contenuti ed attuazione. Su un assetto normativo siffatto, che si vorrebbe ispirare a quello del decreto-legge n. 207/2012 ma che non gli somiglia affatto, se non nell'obiettivo di neutralizzare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale, s'impone, dunque, al giudice di invocare lo scrutinio di legittimita'. Sia la Corte costituzionale a dire se una legge di tal fatta sia o meno compatibile con la nostra Carta fondamentale dei diritti. 4.3 Venuto meno, anzi, piu' precisamente, non essendo stato proprio previsto, nell'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015, un ragionevole punto di bilanciamento, quanto meno analogo a quello ravvisato nell'AIA per la disciplina introdotta nel 2012 in materia ambientale, appare evidente - od almeno non manifestamente infondato, in coerenza il limite della cognizione spettante al giudice del fatto - che la compressione di alcuni interessi di rango costituzionale, indiscutibilmente realizzata dalla normativa in rassegna, non sia giustificata e sia, dunque, illegittima. 4.3.1. Dubbi di legittimita' sussistono, innanzitutto, con riferimento all'art. 2 della Costituzione, che impegna lo Stato a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo. Sara' pure vero - come ha spiegato la Corte costituzionale nella dianzi citata sentenza n. 83 del 2013 - che tra i diritti riconosciuti e tutelati dalla Costituzione non si possa stabilire una gerarchia; ma e' altrettanto indiscutibile, perche' lo dice apertis verbis l'art. 2, che alcuni di quelli sono «inviolabili». Se ne deve coerentemente desumere che essi debbano godere di una tutela, se non assoluta ed incondizionata, quanto meno privilegiata o - se si preferisce - rafforzata, rispetto ad altri interessi costituzionali che inviolabili non siano: con l'ulteriore conseguenza per cui il punto di equilibrio dell'eventuale conflitto tra gli uni e gli altri debba essere collocato quanto piu' vicino ai primi. Ebbene, semmai fosse consentito di riconoscere il crisma dell'inviolabilita' soltanto ad uno dei diritti riconoscibili all'uomo, questo diritto non potrebbe essere che quello alla vita ed all'incolumita' individuale, rappresentando tali beni l'imprescindibile presupposto per l'effettivo godimento di tutti gli altri diritti della persona, a cominciare dalle liberta' fondamentali, consacrate dagli articolo da 13 a 21 della Carta. La disciplina dell'art. 3, decreto-legge n. 92/2015, pertanto, consentendo l'esercizio dell'attivita' d'impresa pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l'incolumita' umana (come la tragica vicenda dell'operaio purtroppo attesta), senza pretendere dall'azienda l'adeguamento degli stessi alle piu' avanzate tecnologie di sicurezza, pare collidere con tale principio costituzionale. 4.3.2. Altrettanto dicasi in relazione all'art. 3 della Costituzione. Il trattamento di favore che il decreto-legge riserva alle aziende di interesse strategico nazionale, in assenza di qualsiasi meccanismo di sollecitazione e di controllo delle stesse al fine del piu' rapido adeguamento dei relativi impianti agli standards di sicurezza imposti dalla legge agli altri operatori economici, rappresenta, invero, un ingiustificato privilegio, lesivo del principio costituzionale di uguaglianza. Correlativamente, l'esposizione dei lavoratori, in tali aziende, a fattori di rischio piu' elevato costituisce anch'essa una forma di diseguaglianza, ad ingiustificato detrimento di costoro rispetto ai cittadini che svolgono analoghe mansioni in aziende non strategiche. 4.3.3. I dubbi di legittimita' non paiono manifestamente infondati neppure con riferimento all'art. 4 della Costituzione, che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»". Prima ancora di fondare «l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso» (come la Corte costituzionale s'e' curata di precisare nella ricordata sentenza n. 83), tale norma sta li', non a caso tra i «principi fondamentali», per sancire il diritto al lavoro di ogni singolo cittadino, ribadendone la rilevanza centrale, in coerenza con l'enunciato d'esordio della stessa Carta: «L'Italia e' una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Ma - la precisazione appare fin troppo ovvia, o forse non e' cosi' - il «diritto al lavoro» non rende legittima la prestazione di un'attivita' lavorativa, quale che essa sia e quali che siano le condizioni in cui la stessa si svolga. Esso impone, in primo luogo e quale presupposto essenziale e inderogabile, che il lavoratore operi in condizioni di massima sicurezza. In tal senso, del resto, la conferma piu' eloquente, ove mai necessaria, si rinviene nella cura con cui i costituenti hanno ribadito che «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, comma 1), altresi' prevedendo espressamente una serie di diritti - per cosi' dire - accessori e funzionali a garantirgli «un'esistenza libera e dignitosa» (equa retribuzione, formazione ed elevazione professionale, durata massima della giornata lavorativa, riposo settimanale, ferie retribuite, assistenza previdenziale e cosi' via: articoli 35 - 38). Anche rispetto a tale generale dovere di tutela del lavoro, dunque, l'art. 3 del decreto-legge n. 92, cosi' com'e', appare in insanabile contrasto. 4.3.4. Altrettanto e' a dirsi in relazione all'art. 32, comma 1, Cost., ed al «diritto alla salute», ivi consacrato. In proposito, basterebbe rammentare le argomentazioni, dianzi testualmente riportate, con le quali la Consulta ha riconosciuto come non lesiva di esso la disciplina del decreto-legge n. 207/2012. A siffatto approdo, infatti, la Corte e' giunta - come s'e' visto - solo sul presupposto del soddisfacente contrappeso costituito dalla procedura di AIA, ed altresi' con riferimento ad un diritto alla salute inteso come pretesa, costituzionalmente riconosciuta, al benessere psicofisico dell'uomo ed alla salubrita' dell'ambiente in cui questi vive. Nella fattispecie che qui interessa, invece, non soltanto manca qualsiasi istituto o procedura che possa essere paragonato all'AIA, ma altresi' il bene in pericolo e' rappresentato non gia', o non solo, dal generico benessere psicofisico, quanto piuttosto dalla stessa vita e dall'incolumita' individuale del cittadino-lavoratore. Sembra francamente incontestabile, allora, che, anche su questo punto, il ragionevole bilanciamento fra diritti costituzionali, postulato dalla Corte, manchi del tutto. 4.3.5. Ulteriore profilo di incostituzionalita' appare ravvisabile con riferimento all'art. 41, comma 2, della Carta, la' dove si afferma che l'attivita' economica privata «non puo' svolgersi ... in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana». Un impianto industriale, come l'altoforno «Afo/2», che ha provocato l'atroce morte di un operaio e che - come risulta dagli atti del procedimento - ha manifestato anche nei giorni seguenti pericolose disfunzioni, con massive dispersioni di materie incandescenti, e' un'offesa alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana di chi vi lavora. Consentire - come il decreto-legge prevede - che esso continui ad operare, ancorche' soltanto per un periodo di tempo limitato, nemmeno in presenza di non ben definite «misure e attivita' aggiuntive», bensi' soltanto di un progetto di esse, peraltro unilateralmente predisposto dall'azienda interessata e non sindacabile ne' controllabile da altri, collide frontalmente - ad avviso del sottoscritto giudice - col divieto di cui al predetto art. 41, comma 2. 4.3.6. L'intervento del Giudice delle leggi, infine, si presenta indispensabile riguardo ad un ultimo profilo. L'art. 112, Cost., affermando il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale da parte del pubblico ministero, implicitamente conferisce rango e tutela costituzionale, laddove necessario, alla potesta' punitiva dello Stato, come indirettamente confermato, del resto, dai reiterati ed espressi riferimenti all'atto motivato dell'autorita' giudiziaria», quale imprescindibile presupposto per la limitazione delle liberta' fondamentali del cittadino. Tale potere-dovere, con altrettanta evidenza logica, si dispiega necessariamente in due direzioni: la repressione dei reati, ma anche la loro prevenzione. Sarebbe del tutto irrazionale, infatti, imporre di reprimere e sanzionare i reati, che rappresentano le condotte a piu' elevata valenza perturbatrice degli equilibri della comunita' sociale, ed invece non renderne altrettanto doverosa la prevenzione. Ne consegue che l'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015, la' dove consente la prosecuzione dell'attivita' produttiva anche in presenza di misure di protezione dei lavoratori non conformi alla migliore scienza ed esperienza del settore, e percio' permette il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante (quanto meno ai fini dell'art. 437, codice penale, e, in caso di incidenti, anche degli articoli 589 e 590, codice penale), privando di efficacia i provvedimenti preventivi doverosamente adottati a tal fine dalle competenti autorita' giudiziarie, va ad incidere su tale potesta' costituzionale. E, nella verosimile assenza di un ragionevole punto di equilibrio, lo fa illegittimamente. 4.3.7. E' manifestamente infondata, invece, l'eccezione d'illegittimita' costituzionale dei citato art. 3, in relazione all'art. 77, comma 2, Cost., pure proposta dal pubblico ministero. I dubbi di quest'ultimo, in ordine alla ricorrenza dei presupposti che legittimano il Governo a ricorrere allo strumento del decreto-legge («casi straordinari di necessita' e d'urgenza»), costituiscono il precipitato dell'assunto - fatto proprio da quell'autorita' giudiziaria - per cui la disciplina cosi' varata possa trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui il provvedimento giudiziario renda impossibile l'esercizio dell'attivita' d'impresa. Cosi', pero', non e', per le ragioni piu' sopra diffusamente spiegate. A tanto aggiungasi che - per costante giurisprudenza costituzionale - «l'esistenza dei requisiti della straordinarieta' del caso di necessita e d'urgenza, che legittimano il Governo ad adottare, sotto la sua responsabilita', provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono efficacia se non convertiti in legge entro sessanta giorni, puo' essere oggetto di scrutinio di costituzionalita', in quanto, secondo la nostra Costituzione, l'attribuzione della funzione legislativa al Governo ha carattere derogatorio rispetto all'essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell'ambito delle competenze dello Stato centrale. Il predetto accertamento non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione - in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti - ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l'assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito e' predisposto. Inoltre, poiche' la straordinarieta' del caso, tale da imporre la necessita' di dettare con urgenza una disciplina in proposito, puo' essere dovuta ad una pluralita' di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi, il difetto dei presupposti di legittimita' della decretazione d'urgenza puo' essere oggetto di scrutinio di costituzionalita', solo quando risulti in modo evidente» (cosi', Corte costituzionale, sentenza n. 171/2007; vds. pur sent. n. 29/1995). Nel caso specifico, dunque, trattandosi di questione comunque incidente sull'attivita' di uno stabilimento dichiarato dalla legge come «di interesse strategico nazionale», non risulta evidente il difetto di tali requisiti e, dunque, non si pone extra ordinem il ricorso del Governo allo strumento del decreto-legge. 5. In conclusione, quindi, l'incidente di esecuzione promosso dai difensori di «ILVA s.p.a. in a.s.», con istanza dell'8 luglio 2015, presupponendo necessariamente l'applicazione dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, non puo' essere definito indipendentemente dalla verifica della legittimita' costituzionale di quest'ultimo. La questione di legittimita' costituzionale di tale norma risulta non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 2 - 3 - 4 - 32, comma 1 - 35, comma 1 - 41, comma 2 - 112 della Costituzione. Di conseguenza, il presente giudizio incidentale dev'essere sospeso e gli atti debbono essere trasmessi alla Corte costituzionale.