TRIBUNALE DI TARANTO 
           Ufficio del Giudice per le indagini preliminari 
 
    Il Giudice per le indagini preliminari dott. Martino Rosati; 
    Esaminata l'istanza depositata nella segreteria del P.M.  -  sede
l'8 luglio 2015 dai difensori di «ILVA s.p.a. in a.s.»,  al  fine  di
dare attuazione al disposto dell'art. 3, decreto-legge 4 luglio 2015,
n. 92; 
    Esaminato il provvedimento del pubblico ministero,  pervenuto  in
cancelleria il 9 luglio 2015, che ha trasmesso all'intestato  Ufficio
la predetta istanza,  esprimendo  parere  contrario  all'accoglimento
della stessa e, in subordine, sollecitando  il  giudice  a  sollevare
questione di legittimita' costituzionale del citato art. 3; 
    Letti gli atti del procedimento; 
    Premesso che si procede nei confronti di R. S. ed altri dirigenti
e tecnici in servizio presso lo stabilimento «ILVA» di Taranto, tutti
compiutamente generalizzati in atti, per le fattispecie di reato e le
relative condotte  di  seguito  sinteticamente  descritte  (vds.,  in
dettaglio,  la  rubrica  provvisoria  contenuta  nella  richiesta  di
sequestro preventivo del  pubblico  ministero,  da  intendersi  quivi
integralmente trascritta): 
        A. articoli 110 - 437,  comma  1  e  2,  codice  penale,  con
particolare  riferimento  alla  omissione  della  predisposizione  di
protezioni del tipo «cover» e di qualsiasi altro dispositivo idoneo a
garantire l'incolumita' dei lavoratori  presso  l'altoforno  2  dello
stabilimento «ILVA» di Taranto, in caso di  proiezioni  di  materiale
incandescente,  nonche'  alla  omissione  di  strumentazioni  per  il
prelievo della ghisa e la  misurazione  della  relativa  temperatura,
idonee a garantire l'incolumita' dei lavoratori; omissioni da cui  e'
derivato l'infortunio mortale dell'operaio M.  A.;  in  Taranto,  l'8
giugno 2015, con permanenza; 
        B. articoli 113 - 589, codice penale, per avere, in tal modo,
e cosi' violando la normativa antinfortunistica,  ed  in  particolare
l'art. 71, decreto legislativo n.  81/2008,  determinato  il  decesso
dell'operaio M.; in Taranto, l'8 giugno 2015, con decesso avvenuto il
...; 
    Che  il  procedimento  si  trova  attualmente  nella  fase  delle
indagini preliminari; 
    Che, in relazione a tali ipotesi di reato, il pubblico ministero,
con proprio decreto del 18 giugno 2015,  emesso  ai  sensi  dell'art.
321,  comma  3-bis,  codice  di  procedura  penale,  ha  disposto  il
sequestro preventivo d'urgenza, senza facolta' d'uso,  dell'altoforno
«Afo2» presso lo stabilimento  «ILVA»  s.p.a.  in  a.s.  di  Taranto,
ravvisando le esigenze cautelari di cui ai commi 1 e 2  dei  medesimo
art. 321; 
    Che, con ordinanza del 29 giugno 2015, resa  ai  sensi  dell'art.
321, comma 3-ter, codice di procedura penale (e che si allega,  quale
parte integrante del presente atto), il sottoscritto giudice  per  le
indagini preliminari ha convalidato il decreto del pubblico ministero
ed  ha  disposto  il  sequestro  preventivo  del  medesimo  impianto,
parimenti senza facolta' d'uso; 
    Che, con decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, pubblicato  in  pari
data nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 153 ed entrato in
vigore lo stesso giorno, e' stato cosi' disposto: 
    «Art. 3  -  Misure  urgenti  per  l'esercizio  dell'attivita'  di
impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario. 
    1. Al fine  di  garantire  il  necessario  bilanciamento  tra  le
esigenze di continuita' dell'attivita'  produttiva,  di  salvaguardia
dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e
dell'ambiente  salubre,  nonche'  delle   finalita'   di   giustizia,
l'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse
strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di  sequestro,
come gia' previsto dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre
2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24  dicembre
2012, n. 231, quando lo stesso  si  riferisca  ad  ipotesi  di  reato
inerenti alla sicurezza dei lavoratori. 
    2. Tenuto conto della rilevanza degli interessi in  comparazione,
nell'ipotesi di cui  al  comma  1,  l'attivita'  d'impresa  non  puo'
protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12  mesi  dall'adozione
del provvedimento di sequestro. 
    3. Per la prosecuzione dell'attivita' degli stabilimenti  di  cui
al  comma  1,  senza  soluzione  di   continuita',   l'impresa   deve
predisporre, nel termine perentorio di 30  giorni  dall'adozione  del
provvedimento di sequestro,  un  piano  recante  misure  e  attivita'
aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della  sicurezza
sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento
di sequestro. L'avvenuta  predisposizione  del  piano  e'  comunicata
all'autorita' giudiziaria procedente. 
    4. I1 piano e' trasmesso al Comando provinciale  dei  Vigili  del
fuoco, agli uffici della ASL e dell'INAIL competenti  per  territorio
per le rispettive attivita' di  vigilanza  e  controllo,  che  devono
garantire un costante monitoraggio delle aree di  produzione  oggetto
di sequestro, anche mediante lo svolgimento di  ispezioni  dirette  a
verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste
nel piano (...). 
    5. Le disposizioni del presente articolo si  applicano  anche  ai
provvedimenti di sequestro gia' adottati  alla  data  di  entrata  in
vigore del presente decreto e i  termini  di  cui  ai  commi  2  e  3
decorrono dalla medesima data.»; 
    Che, con la suddetta istanza dello scorso 8 luglio,  i  difensori
di «ILVA s.p.a. in a.s.»  hanno  chiesto  al  pubblico  ministero  di
«adottare i provvedimenti ritenuti di competenza ovvero, se del caso,
richiedere  l'intervento  dell'organo  giurisdizionale  della  fase»,
deducendo in sintesi: 
        a) che tale decreto-legge  non  tocca  il  vincolo  cautelare
reale, ma si limita a modificarne i profili esecutivi, realizzando un
sospensione ex lege dell'esecuzione del sequestro; 
        b) che si tratta percio' di  materia  riservata  al  pubblico
ministero; 
        c)  che  il  provvedimento  dell'autorita'   giudiziaria   ha
carattere meramente dichiarativo, come si evince dal fatto che quella
norma abbia previsto la prosecuzione dell'attivita'  d'impresa  senza
soluzione di continuita'  e  soltanto  un  obbligo  di  comunicazione
all'autorita' giudiziaria del piano di intervento; 
    Che il pubblico ministero ha declinato la  propria  competenza  a
decidere,   limitandosi   ad   esprimere    un    parere    contrario
all'accoglimento dell'istanza, rimettendo gli atti per  la  decisione
al giudice per le indagini preliminari e, a tal fine, deducendo: 
        a) che il predetto decreto non puo'  caducare  ipso  iure  il
provvedimento  di  sequestro  in  atto,  realizzandosi,   altrimenti,
un'ingerenza del  potere  legislativo  nelle  prerogative  di  quello
giudiziario; 
        b) che la competenza a decidere  spetta  al  giudice  per  le
indagini preliminari, quale autorita' che ha  emesso  il  decreto  di
sequestro, poiche' il decreto-legge non incide su  profili  meramente
esecutivi  della  misura  cautelare,  bensi'  «sulla  sostanza»   del
provvedimento; 
        c) che la disciplina introdotta dal  decreto-legge  non  puo'
trovare  applicazione  nel  caso  di  specie,  perche'  essa  attiene
all'ipotesi in cui il sequestro  preventivo  «impedisca»  l'esercizio
dell'attivita' d'impresa, mentre tale situazione non ricorre nel caso
specifico, non avendo gli istanti addotto «adeguate  motivazioni  ...
circa  l'impossibilita'  di  proseguire  l'intera   attivita'   dello
stabilimento in costanza di  vincolo  cautelare  sul  solo  altoforno
afo2», ed anzi avendo evidenziato il custode  giudiziario,  con  nota
dell'8  luglio  u.s.,  che  «lo  spegnimento  di  AFO2  ...   avrebbe
determinato un dimezzamento dell'attuale livello  produttivo,  e  non
l'interruzione dell'attivita' produttiva nel suo complesso»; 
    Che, in  via  subordinata,  il  pubblico  ministero  ha  proposto
eccezione  di   illegittimita'   costituzionale   dell'art.   3   del
decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, in relazione: 
        a) all'art.  41,  Cost.,  nella  parte  in  cui  quest'ultimo
specifica che l'iniziativa economica non puo' svolgersi  in  modo  da
arrecare danno alla dignita' umana; 
        b) agli articoli 2, 3, 4, 9, 32, 35,  Cost.,  trattandosi  di
disposizione di legge lesiva di diritti inviolabili dell'uomo,  primo
fra tutti quello alla vita  ed  alla  salute,  e  comportando,  quale
effetto diretto, lo svolgimento di attivita' lavorativa in condizioni
di rischio e di non sicurezza per i lavoratori  e,  conseguentemente,
la  non  effettivita'  dell'esercizio  del  diritto  al  lavoro;   in
particolare, il suddetto decreto, riconoscendo  solo  all'impresa  il
compito predisporre unilateralmente un piano  di  misure  aggiuntive,
senza la possibilita' di sindacato alcuno, di fatto non realizzerebbe
un  bilanciamento  ragionevole  tra  il  diritto   alla   salute   ed
all'ambiente salubre,  da  un  lato,  ed  il  diritto  all'iniziativa
economica privata, dall'altro; 
        c) all'art. 77, comma 2, Cost., mancando il presupposto della
straordinaria necessita' ed urgenza, che giustifica  l'esercizio  del
potere legislativo da parte del Governo; 
        d) agli articoli 112 e 104, Cost.,  nella  parte  in  cui  il
suddetto  decreto  consente,  pur  a  fronte  di  un  perpetrarsi  di
attivita' illecita da parte dell'impresa, di  continuare  la  propria
attivita' per dodici mesi, sul presupposto della mera comunicazione e
predisposizione  unilaterale  e  insindacabile   di   un   piano   di
intervento, senza possibilita' per gli organi di controllo, anch'essi
arbitrariamente individuati, ne' per la stessa autorita'  giudiziaria
di sindacare o sollecitare misure di sicurezza ulteriori  rispetto  a
quelle individuate dall'impresa; 
 
                               Rileva 
 
1. Sulla competenza a decidere del G.I.P. 
    La materia del sequestro preventivo, in ordine alla  ripartizione
delle competenze tra giudice e pubblico ministero, presenta, gia'  di
per se', un tratto peculiare. Accanto alla disposizione dell'art. 92,
disp. att., codice di procedura penale, che  e'  comune  a  tutte  le
misure cautelari ed individua nel pubblico ministero l'organo che  ne
cura  l'esecuzione  nel  corso  delle  indagini  preliminari,   trova
applicazione, infatti, anche l'art. 321, comma  3,  secondo  periodo,
codice di procedura penale: il  quale  -  com'e'  noto  -  assegna  a
quell'autorita'  giudiziaria,  in  tale  fase  del  procedimento,  la
competenza a disporre pure la revoca del sequestro. 
    Si tratta, dunque, dell'unico caso, nell'ambito del vigente  rito
penale, in cui il provvedimento  di  un'autorita'  giudiziaria  possa
essere revocato una diversa autorita' giudiziaria, nell'ambito  della
medesima  fase  procedimentale  ed  al  di  fuori  di  una  procedura
d'impugnazione. Ma non solo: si tratta dell'unica ipotesi in  cui  un
provvedimento di un  giudice  possa  essere  revocato  dall'autorita'
giudiziaria inquirente, ovvero da una parte del processo (quantunque,
in  quella  fase,  non  ancora  formalmente  tale,  ma  destinata   a
divenirlo, in  caso  di  esercizio  dell'azione  penale).  E  a  tale
determinazione, a riprova dell'ampia potesta'  riconosciuta  in  tale
materia al pubblico  ministero,  questi  puo'  giungere  finanche  di
propria iniziativa e senza neppure l'onere di darne  informazione  al
giudice che aveva adottato la misura. 
    A  complicare  la  questione,  negli  anni,  ci  ha  pensato   la
giurisprudenza, ritenendo possibile concedere,  agli  indagati  o  ad
altri aventi titolo, la c.d.  facolta'  d'uso  del  bene  oggetto  di
sequestro, pur nella perdurante vigenza del vincolo  giudiziario,  in
tal  modo  svuotando  quest'ultimo  del  suo   contenuto   tipico   e
qualificante: l'indisponibilita', ossia, del bene staggito. 
    La situazione, poi, e' divenuta quant'altre mai intricata, quando
il  legislatore,  appropriandosi  di  tale  istituto   di   creazione
pretorile,  ha  pensato  bene  di  elevare  la  facolta'  d'uso,   in
determinate situazioni, a regula iuris di ordine  generale,  peraltro
applicabile a misure gia' in atto. In  tal  modo,  ha  partorito  una
figura giuridica sui generis, tale da mettere in  difficolta'  -  per
venire al caso specifico - non soltanto il  P.M.  od  il  giudice  da
questi investito, ma, ancor prima, gli stessi difensori istanti: che,
infatti, scegliendo di rivolgersi all'autorita' inquirente,  si  sono
comunque tenuti  sul  vago,  chiedendole  -  come  s'e'  visto  -  di
«adottare i provvedimenti ritenuti di competenza ovvero, se del caso,
richiedere l'intervento dell'organo giurisdizionale della fase». 
    Per capire a chi spetti fare  cosa,  allora,  e'  indispensabile,
anzitutto, trovare all'eccentrica disciplina introdotta  dall'art.  3
del  decreto-legge  n.   92/2015   una   soddisfacente   collocazione
sistematica all'interno dell'ordinamento. 
    Ebbene, volendo utilizzare categorie giuridiche gia' note, sembra
potersi  concludere  che,  attraverso  le  previsioni  contenute  dei
relativi commi 2  e  3,  il  legislatore,  nel  caso  di  imprese  di
interesse strategico nazionale, abbia sottoposto il sequestro ad  una
condizione sospensiva negativa e ad un termine  dilatorio  eventuale:
la prima, ossia, consiste nella  mancata  predisposizione,  da  parte
dell'impresa, entro trenta giorni dal provvedimento, di un  piano  di
intervento (comma  3);  il  secondo,  invece,  stabilisce  la  durata
massima dell'esercizio dell'attivita' d'impresa nonostante il vincolo
(comma 2). 
    La legislazione d'urgenza, ossia,  non  tocca  l'esistenza  o  la
validita' del provvedimento giudiziario  cautelare,  ma  ne  sospende
l'efficacia, subordinandola ad  una  condizione  e  differendola  non
oltre un dato termine. 
    Ne  consegue,  ai  fini  in  discorso,   che   il   provvedimento
giudiziario destinato ad  applicare  tale  dettato  normativo  ad  un
decreto di sequestro gia' in atto non incide soltanto sulle modalita'
esecutive  di'  quest'ultimo,  sul  quomodo,  ossia,  della  relativa
esecuzione;  bensi'  attiene  all'an  della   stessa,   ovvero   alla
esecutivita' del titolo. Appare, dunque, coerente con i principi  del
nostro rito penale che detto provvedimento ulteriore  venga  adottato
dal giudice che ha disposto il sequestro, e non dall'organo, qual  e'
il pubblico ministero, chiamato soltanto  a  provvedere  ai  relativi
adempimenti esecutivi: «salvo diversa disposizione di legge - recita,
infatti, l'art. 665, comma 1, codice di procedura penale - competente
a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento e' il giudice che  lo
ha deliberato». 
2. Sulla procedura da seguire. 
    Spetta, dunque, al giudice per le indagini preliminari, in quanto
organo che  ha  adottato  il  provvedimento  di  sequestro,  decidere
sull'istanza avanzata dai difensori di «ILVA», con cui si  invoca  la
sospensione  dell'efficacia   di   tale   titolo   cautelare   e   la
consequenziale prosecuzione dell'attivita' d'impresa. 
    Resta da stabilire con quale procedura. 
    Poiche' il provvedimento  di  sequestro,  come  tutte  le  misure
cautelari, e', in via generale, immediatamente esecutivo,  tanto  che
neppure la proposizione del riesame ne  sospende  l'esecuzione  (art.
322, comma 2, c.p.p.), le questioni relative a  quest'ultima,  com'e'
quella in rassegna, non  possono  che  essere  trattate  nelle  forme
previste per i cc.dd. incidenti di esecuzione (libro X,  titolo  III,
capo I, articoli 665 ss., codice di procedura penale). 
    Nell'ambito di tale disciplina di rito, poi, si ritiene che debba
essere adottata la procedura semplificata di cui all'art. 667,  comma
4 («il giudice dell'esecuzione provvede in ogni caso senza formalita'
con  ordinanza  comunicata  al  pubblico   ministero   e   notificata
all'interessato»),  in  considerazione  dell'espresso  richiamo  alla
stessa, operato dal successivo art. 676, comma 1. Quest'ultima norma,
infatti, prevede  che  tale  procedura  de  plano  sia  adottata  dal
giudice, allorche' sia chiamato a decidere, tra le altre ipotesi, «in
ordine ... alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate». 
    E' ben vero che, a  stretto  rigore,  la  decisione  odierna  non
rientra in nessuna di queste due ipotesi; tuttavia, in assenza di una
differente  e  specifica  disposizione  sul  rito,   non   puo'   che
utilizzarsi, quale riferimento, l'unica che attenga ex professo  alla
sorte delle cose sequestrate: una norma, ossia, che, se  e'  tale  da
offrire  sufficiente  garanzia  allorche'  si  tratti   di   decidere
dell'ablazione definitiva di un bene (confisca) o  del  totale  venir
meno del vincolo (restituzione), ben puo' essere reputata tale  anche
quando si controverta soltanto dell'efficacia o meno del sequestro. 
    L'irripetibile   singolarita'   del   caso   concreto,    infine,
determinata dal sopraggiungere  in  corsa  del  decreto-legge,  dalla
peculiarita' del suo contenuto e  dalle  conseguenti  incertezze  sul
rito, anche da parte degli stessi avvocati istanti, ha fatto si'  che
l'odierno giudicante si trovi  a  decidere  dopo  aver  acquisito  un
parere da parte del pubblico ministero, ovvero a seguito di un -  pur
parziale  ed  embrionale  -   contraddittorio   anticipato,   e   non
successivo, come invece prevede l'art.  667,  comma  44,  citato.  In
proposito, tuttavia, poiche' comunque nessuna disposizione  vieta  al
giudice  di  acquisire,  in  quei  casi,  il  parere   dell'autorita'
inquirente, nessun vizio di procedura puo' ritenersi  verificato  nel
caso specifico, tanto piu'  che  un  siffatto  parere  non  e'  stato
neppure richiesto dal giudice. 
3. Sulla rilevanza dell'art. 3, decreto-legge  n.  92/2015,  ai  fini
della decisione. 
    La  Procura  della  Repubblica  ha  espresso   parere   contrario
all'accoglimento  dell'istanza  difensiva,  sul  presupposto  che  la
disciplina contenuta nell'art.  3  del  decreto-legge  debba  trovare
applicazione soltanto nel caso in cui il  sequestro  impedisca  -  id
est:  renda  impossibile  -  l'esercizio  dell'attivita'   d'impresa:
effetto, quest'ultimo, che invece  non  si  produrrebbe  nell'ipotesi
specifica. 
    In effetti, attenendosi a quello che l'art. 12,  comma  1,  delle
Preleggi indica quale primo criterio interpretativo,  quello,  ossia,
per cui alla legge «non si puo' attribuire  altro  senso  che  quello
fatto  palese  dal  significato  proprio  delle  parole  secondo   la
connessione di esse», la lettura proposta dal pubblico ministero  non
si presenta affatto peregrina,  ed  anzi  finirebbe  per  rendere  il
contenuto della norma in questione meno stridente rispetto al dettato
costituzionale (come meglio si dira' di qui a breve). 
    Invero, nei primi due commi, l'art. 3 si  riferisce  testualmente
alla  «attivita'  d'impresa»  ed  agli  «stabilimenti»  di  interesse
strategico, si' da rendere plausibile un'interpretazione che mantenga
al di fuori del  relativo  perimetro  applicativo  le  ipotesi,  come
quella in esame, in cui il sequestro riguardi  soltanto  un  impianto
dello stabilimento e l'attivita' produttiva di quest'ultimo,  sebbene
a volumi ridotti, possa proseguire (vds. nota del  custode,  cit.  in
premessa). 
    Tuttavia, seppur  reso  meno  nitido  da  una  tecnica  normativa
impropria  (determinata  probabilmente  dalla  fretta,   notoriamente
cattiva consigliera), il significato della norma va inteso nel  senso
dell'applicabilita'  di  essa  ai  sequestri   comunque   riguardanti
stabilimenti di interesse strategico nazionale: anche quando,  ossia,
tali  misure  cautelari  attingano,  nel   concreto,   non   l'intero
stabilimento, bensi' soltanto  singoli  impianti,  e  non  comportino
necessariamente l'interruzione dell'attivita' d'impresa. 
    Nel comma 3, infatti, si  fa  espresso  riferimento  a  «impianto
oggetto del provvedimento di sequestro»; e cosi', pure, nel comma  4,
a riprova del fatto che la normativa  d'urgenza  operi  anche  per  i
sequestri  di  porzioni  di  stabilimento,  si  parla  di  «aree   di
produzione oggetto di sequestro». 
    Ma,  soprattutto,  inequivoco,  in  quel   senso,   si   presenta
l'esplicito richiamo al primo esperimento di  una  normativa  di  tal
fatta, adottata, anche in quel  caso,  con  specifico  riguardo  allo
stabilimento «ILVA» di Taranto:  «come  gia'  previsto  dall'art.  1,
comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231». 
    Detto  art.  1,  infatti,  dopo  aver  attribuito   al   Ministro
dell'ambiente, al comma 1, la possibilita'  di  autorizzare,  a  date
condizioni, la prosecuzione dell'attivita' produttiva per un  periodo
di tempo  determinato,  prevede,  al  successivo  comma  4,  che  «le
disposizioni di cui al comma  1  trovano  applicazione  anche  quando
l'autorita' giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui
beni dell'impresa titolare dello stabilimento", e che, in  tal  caso,
"i  provvedimenti  di  sequestro   non   impediscono...   l'esercizio
dell'attivita' d'impresa a norma del comma 1». 
    Il riferimento a  tale  disciplina,  contenuto  nell'art.  3  del
decreto-legge n. 92/2015, si rivela, quindi,  innanzitutto,  atecnico
ed approssimativo, poiche' il comma 4 dell'art. 1  del  decreto-legge
del 2012 contiene, a sua volta, un rinvio per relationem ad ulteriore
e dettagliata normativa  (quella,  ossia,  di  cui  al  comma  1  del
medesimo articolo, peraltro attinente a materia  differente  rispetto
alla sicurezza dei lavoratori), invece assente nel  decreto-legge  n.
92. In secondo luogo, esso finisce per risultare -  absit  iniuria  -
piuttosto grossolano, ponendo l'accento, piu' che sui  contenuti  del
precedente normativo evocato (con formule del tipo «ai sensi di ...»,
«in  quanto  applicabile  ...»,  od  altre  similari  e   solitamente
utilizzate in casi analoghi), sul sol fatto  dell'esistenza  di  esso
(«come gia' previsto ...»). 
    Tuttavia, pur con questi suoi vizi originari, tale richiamo rende
palese l'intento del Governo-legislatore nel senso dianzi  sostenuto,
conducendo  alla  conclusione  per  cui  -  a  differenza  di  quanto
sostenuto dal pubblico ministero  nel  suo  parere  -  nel  campo  di
applicazione dell'art. 3 del decreto-legge n. 92/2015  rientri  anche
il sequestro emesso nei presente procedimento. 
    La relativa disciplina, dunque, e' rilevante - essenziale, anzi -
ai fini della decisione sull'istanza avanzata dai difensori di «ILVA»
e devoluta alla cognizione dell'odierno  giudicante,  sicche'  ne  e'
indispensabile la verifica di costituzionalita'. 
4. Sulla legittimita' costituzionale dell'art.  3,  decreto-legge  n.
92/2015. 
    Dunque,  secondo  l'interpretazione  piu'   plausibile,   nonche'
certamente corrispondente all'interno del Governo  che  l'ha  emanato
(basti pensare, a tacer d'altro, al ristrettissimo  lasso  temporale,
appena 5  giorni,  trascorso  dal  decreto  emesso  dal  sottoscritto
giudice), l'art. 3 del decreto-legge n.  92/2015  trova  applicazione
nella concreta fattispecie oggetto del presente procedimento. 
    Sia detto per inciso. Chi  scrive  e'  perfettamente  consapevole
che, nel tempo necessario  per  il  giudizio  da  parte  della  Corte
costituzionale, il Parlamento, con ogni verosimiglianza,  sara'  gia'
intervenuto,  emendando  con  la  legge  di  conversione  -  c'e'  da
auspicarsi - quella che, se la necessita' di decidere in  fretta  non
inganna, appare una  siderale  divergenza  della  norma  in  rassegna
rispetto a vari principi costituzionali. 
    Tuttavia, poiche' e' chiamato a decidere qui ed ora,  e  poiche',
allo stato delle cose, la normativa vigente e' quella introdotta  con
tale decretazione d'urgenza, il giudice non ha  alternative  rispetto
alla proposizione della  questione  di  legittimita'  costituzionale,
laddove  -  come  nella  specie  -  i  relativi  dubbi  non  appaiano
manifestamente infondati. 
    4.1. Liberando subito il  campo  da  qualsiasi  infingimento,  e'
chiaro  a  tutti,  non  foss'altro  che  per   l'anzidetta   sequenza
cronologica, che il predetto art. 3 e' stato in tutta  fretta  varato
dal  Governo  con  l'obiettivo,  almeno   in   via   principale,   di
neutralizzare gli effetti del sequestro dell'altoforno «Afo/2»  dello
stabilimento «ILVA» di Taranto, disposto da quest'ufficio  lo  scorso
29 giugno. E lo sbrigativo richiamo  all'analoga  legge-provvedimento
del 2012, contenuto nell'ultima parte del comma 1  di  tale  articolo
(«come gia' previsto da ...»), non puo'  non  essere  letto  come  Io
strumento utilizzato dal  Governo  per  stabilire  una  relazione  di
simmetria  con   quel   precedente   testo   normativo,   che,   come
quest'ultimo, era intervenuto a  sterilizzare,  nella  sostanza,  gli
effetti  di   un   sequestro   preventivo   disposto   dall'autorita'
giudiziaria. 
    Non e' dato di sapere - e nulla importa, in verita' - all'odierno
giudicante se, nelle intenzioni dell'Esecutivo, quel richiamo dovesse
servire anche ad estendere alla norma in questione  quella  copertura
di costituzionalita' che il Giudice delle leggi  ha  riconosciuto  al
decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, con la nota sentenza n. 85 del
2013. Gli e', pero', che, se cosi' fosse, verrebbe da dire  che,  mai
come in questo caso, il risultato ha tradito le aspettative. 
    E' sufficiente leggere  quel  giudicato,  infatti,  per  cogliere
all'evidenza come al giudizio di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli 1 e 3 del decreto-legge del 2012 la Corte costituzionale sia
pervenuta soltanto in ragione della rilevata presenza, in quel  caso,
di specifici contrappesi normativi, che l'hanno condotta  a  reputare
ragionevole il pur ravvisato sacrificio  di  beni  costituzionalmente
rilevanti (primo fra tutti, il diritto alla salute), in  vista  della
soddisfazione di interessi di pari rango. 
    In particolare, la Corte ha rinvenuto tale  punto  di  equilibrio
nel fatto che la prosecuzione dell'attivita' d'impresa sia stata,  in
quel caso, subordinata al rispetto, da parte dell'azienda, delta c.d.
«AIA» (acronimo che sta per «autorizzazione  integrata  ambientale»):
ovvero di un provvedimento amministrativo, soggetto, come tale,  agli
ordinari rimedi giurisdizionali tipici; redatto con la partecipazione
di  una  pluralita'  di  amministrazioni  pubbliche  provviste  delle
relative competenze, anche di ordine tecnico; che, inoltre, quanto ai
contenuti, impegna l'azienda all'adeguamento degli impianti,  con  le
cadenze cronologiche ivi imposte, alle migliori tecniche disponibili;
e per la cui effettiva attuazione, infine, e'  stato  predisposto  un
articolato  apparato  di  controllo  e   sanzionatorio,   addirittura
ulteriore rispetto a quello previsto dalla legislazione ordinaria. 
    Per comprendere quanto impervio e complesso sia stato il percorso
attraverso il quale il Giudice delle leggi e' giunto a tale  approdo,
e che non puo' certo essere richiamato con  un  generico  «come  gia'
previsto da  ...»  puo'  forse  essere  utile  riportare  alcuni  dei
passaggi piu' significativi di quella sentenza,  che  paiono  proprio
tracciare un solco incolmabile tra i  due  testi  normativi,  tenendo
irrimediabilmente al di fuori del perimetro di  costituzionalita'  il
decreto-legge n. 92: 
    «Premessa generale dell'applicabilita' della norma  in  questione
e' che  vi  sia  stata  la  revisione  dell'autorizzazione  integrata
ambientale (...). 
    L'autorita'   competente   rilascia   l'AIA   solo   sulla   base
dell'adozione, da parte del  gestore  dell'impianto,  delle  migliori
tecnologie disponibili (MTD), di cui l'amministrazione  deve  seguire
l'evoluzione. (...) 
    L'art.  1  del  decreto-legge  n.  207  del  2012,  al  comma  2,
stabilisce inoltre: «E' fatta  comunque  salva  l'applicazione  degli
articoli 29-octies, comma 4, e  29-nonies  e  29-decies  del  decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni». (...) 
    E' utile ricordare  che  il  citato  art.  29-decies  del  codice
dell'ambiente  (esplicitamente  richiamato  dalla  norma   censurata)
prevede una serie di controlli e interventi, a cura  delle  autorita'
competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente
intensita', in rapporto  alla  gravita'  delle  eventuali  violazioni
accertate. 
    In particolare: 
        1) i dati forniti dal gestore  relativi  ai  controlli  sulle
emissioni richiesti dall'AIA sono messi a disposizione del  pubblico,
secondo le procedure previste dall'art. 29-quater  (pubblicazione  su
quotidiani ed indicazione, su tali organi  di  stampa,  degli  uffici
dove e' possibile consultare la documentazione relativa); 
        2) l'Istituto  superiore  per  la  protezione  e  la  ricerca
ambientale (ISPRA) deve accertare: 
          a) il rispetto delle condizioni poste dall'AIA; 
          b) la regolarita' dei controlli a carico del  gestore,  con
particolare  riferimento  alla  regolarita'  delle   misure   e   dei
dispositivi di prevenzione dell'inquinamento nonche' al rispetto  dei
valori limite di emissione; 
          c) l'osservanza da parte  del  gestore  degli  obblighi  di
comunicazione  periodica  dei  risultati  della  sorveglianza   sulle
emissioni del proprio impianto, specie in  caso  di  inconvenienti  o
incidenti che influiscano in modo significativo sull'ambiente. 
    Possono essere disposte ispezioni  straordinarie  sugli  impianti
autorizzati alla prosecuzione dell'attivita'. 
    E' previsto altresi'  l'obbligo  del  gestore  di  fornire  tutta
l'assistenza tecnica  necessaria  per  lo  svolgimento  di  qualsiasi
verifica  relativa  all'impianto,  per  prelevare  campioni   o   per
raccogliere qualsiasi informazione necessaria. 
    Gli  esiti  dei  controlli  e  delle  ispezioni   devono   essere
comunicati all'autorita'  competente  ed  al  gestore,  indicando  le
situazioni di mancato rispetto delle  prescrizioni  e  proponendo  le
misure da adottare. 
    Ogni  organo  che  svolge  attivita'  di  vigilanza,   controllo,
ispezione  e  monitoraggio  sugli  impianti  e  che  abbia  acquisito
informazioni   in   materia    ambientale,    rilevanti    ai    fini
dell'applicazione delle norme del codice dell'ambiente, comunica tali
informazioni,  ivi  comprese   le   eventuali   notizie   di   reato,
all'autorita' competente. I risultati del controllo  delle  emissioni
richiesti  dalle  condizioni   dell'AIA   devono   essere   messi   a
disposizione del pubblico. 
    In   caso   di   inosservanza   delle   prescrizioni    contenute
nell'autorizzazione,  l'autorita'  competente  procede,  secondo   la
gravita' delle infrazioni: 
        a) alla diffida, assegnando un termine entro il quale  devono
essere eliminate le irregolarita'; 
        b) alla  diffida  e  contestuale  sospensione  dell'attivita'
autorizzata per un tempo determinato, ove si  manifestino  situazioni
di pericolo per l'ambiente; 
        c) alla revoca dell'AIA e  alla  chiusura  dell'impianto,  in
caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la  diffida
e in caso di reiterate  violazioni,  che  determinino  situazioni  di
pericolo o di danno per l'ambiente. 
    Occorre ancora porre  in  rilievo  che  l'art.  29-quattuordecies
prevede sanzioni a carico di chi viola le  prescrizioni  dell'AIA,  o
quelle comunque imposte dall'autorita' competente, salvo che il fatto
costituisca piu'  grave  reato  (riferimento,  quest'ultimo,  che  si
risolve anche  nel  richiamo  alle  fattispecie  del  diritto  penale
comune) (...). 
    Non  solo  la  disposizione  censurata  non   stabilisce   alcuna
immunita' penale per il periodo sopra  indicato,  ma,  al  contrario,
(...) le espressioni usate dal legislatore -  «fatta  salva»,  «fermo
restando» -  si  riferiscono  in  modo  evidente  ad  una  disciplina
normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle
preesistenti  sanzioni  amministrative  e  penali,   la   fattispecie
introdotta dal comma 3 del citato art. 1, ovviamente  dalla  data  di
entrata in vigore del decreto-legge. 
    I motivi di  tale  aggravamento  di  responsabilita'  si  possono
rinvenire nell'esigenza di  prevedere  una  reazione  adeguata  delle
autorita' preposte alla  vigilanza  ed  ai  controlli  rispetto  alle
eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA  da  parte  di
una impresa, gia' responsabile di gravi irregolarita', cui  e'  stata
concessa la prosecuzione dell'attivita' produttiva  e  commerciale  a
condizione che la stessa  si  adegui  scrupolosamente  alle  suddette
prescrizioni. (...) 
    Se si leggono tali previsioni  in  combinazione  con  quelle  che
dispongono la perdurante applicabilita', nel corso dei 36 mesi, delle
sanzioni amministrative e penali vigenti, si giunge alla  conclusione
che non solo non vi e' alcuna sospensione dei controlli di  legalita'
sull'operato    dell'impresa    autorizzata     alla     prosecuzione
dell'attivita', ma vi sono un rafforzamento ed  un  allargamento  dei
controlli  sull'osservanza  delle  prescrizioni  contenute   nell'AIA
riesaminata. (...) 
    La distinzione tra la situazione normativa precedente all'entrata
in vigore della legge ... e l'attuale disciplina consiste  nel  fatto
che  l'attivita'  produttiva  e'  ritenuta  lecita  alle   condizioni
previste dall'AIA riesaminata. Quest'ultima fissa modalita'  e  tempi
per l'adeguamento dell'impianto produttivo rispetto  alle  regole  di
protezione  dell'ambiente  e   della   salute,   entro   il   periodo
considerato, con una scansione  graduale  degli  interventi,  la  cui
inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile  ai  sensi
delle leggi vigenti. 
    In conclusione sul punto,  la  norma  censurata  ...  traccia  un
percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento  tra  la
tutela dei beni indicati e quella dell'occupazione,  cioe'  tra  beni
tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. (...) 
    La ratio della disciplina censurata consiste nella  realizzazione
di un ragionevole bilanciamento  tra  diritti  fondamentali  tutelati
dalla Costituzione, in particolare alla salute (art.  32  Cost.),  da
cui deriva il diritto all'ambiente  salubre,  e  al  lavoro  (art.  4
Cost.), da cui deriva  l'interesse  costituzionalmente  rilevante  al
mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni
pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. 
    Tutti i  diritti  fondamentali  tutelati  dalla  Costituzione  si
trovano in rapporto di integrazione  reciproca  e  non  e'  possibile
pertanto individuare uno di essi che  abbia  la  prevalenza  assoluta
sugli altri. (...) 
    Ne' la definizione data da questa  Corte  dell'ambiente  e  della
salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del  1993,  citata  dal
rimettente) implica una «rigida» gerarchia tra diritti  fondamentali.
La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni  democratiche  e
pluraliste  contemporanee,  richiede  un   continuo   e   vicendevole
bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza  pretese  di
assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come «primari» dei
valori dell'ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi
non  possono  essere  sacrificati  ad  altri   interessi,   ancorche'
costituzionalmente tutelati, non gia' che gli stessi siano posti alla
sommita' di un ordine gerarchico assoluto. Il  punto  di  equilibrio,
proprio perche' dinamico e non prefissato in  anticipo,  deve  essere
valutato - dal  legislatore  nella  statuizione  delle  norme  e  dal
giudice delle leggi  in  sede  di  controllo  -  secondo  criteri  di
proporzionalita' e di  ragionevolezza,  tali  da  non  consentire  un
sacrificio del loro nucleo essenziale. (...) 
    L'autorizzazione al proseguimento  dell'attivita'  produttiva  e'
subordinata, dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 207 del 2012,
all'osservanza delle prescrizioni dell'AIA riesaminata. La natura  di
tale atto e' amministrativa, con la conseguenza che contro lo  stesso
sono azionabili tutti  i  rimedi  previsti  dall'ordinamento  per  la
tutela dei diritti soggettivi e  degli  interessi  legittimi  davanti
alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il richiamo operato in
generale dalla legge ha il valore di costante  condizionamento  della
prosecuzione dell'attivita' produttiva alla puntuale osservanza delle
prescrizioni  contenute   nel   provvedimento   autorizzatorio,   che
costituisce l'esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed
amministrativi in un unico procedimento, nel  quale,  in  conformita'
alla direttiva n. 2008/1/CE, devono trovare simultanea applicazione i
principi  di  prevenzione,  precauzione,   correzione   alla   fonte,
informazione e partecipazione, che  caratterizzano  l'intero  sistema
normativo  ambientale.  Il  procedimento  che  culmina  nel  rilascio
dell'AIA,  con  le  sue  caratteristiche  di  partecipazione   e   di
pubblicita',  rappresenta  lo  strumento  attraverso  il   quale   si
perviene, nella previsione del  legislatore,  all'individuazione  del
punto di equilibrio in ordine all'accettabilita' e alla gestione  dei
rischi, che derivano dall'attivita' oggetto dell'autorizzazione. 
    Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la
verifica dell'efficacia delle prescrizioni. Cio' chiama in  causa  la
funzione di controllo dell'amministrazione, che si avvale dell'ISPRA,
con la possibilita' che, in caso di accertata inosservanza  da  parte
dei gestori degli impianti, si applichino misure  che  vanno  -  come
gia' rilevato sopra  -  sino  alla  revoca  dell'autorizzazione,  con
chiusura dell'impianto ... (...) 
    In  definitiva,  l'AIA  riesaminata  indica  un  nuovo  punto  di
equilibrio, che consente, secondo la  norma  censurata  nel  presente
giudizio,  la  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva   a   diverse
condizioni, nell'ambito delle quali l'attivita'  stessa  deve  essere
ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato
dal legislatore necessario  e  sufficiente  a  rimuovere,  anche  con
investimenti straordinari da parte dell'impresa interessata, le cause
dell'inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute
delle popolazioni. (...) 
    L'individuazione del bilanciamento, che da' vita alla nuova  AIA,
e', come si e' visto, il risultato  di  apporti  plurimi,  tecnici  e
amministrativi,  che  puo'  essere  contestato  davanti  al   giudice
competente, nel caso si lamentino vizi di legittimita'  dell'atto  da
parte di cittadini che si ritengano lesi nei loro diritti e interessi
legittimi. (...) 
    Il punto di equilibrio contenuto nell'AIA non e'  necessariamente
il migliore  in  assoluto  -  essendo  ben  possibile  nutrire  altre
opinioni sui mezzi piu' efficaci per conseguire i risultati voluti  -
ma  deve  presumersi  ragionevole,  avuto  riguardo   alle   garanzie
predisposte dall'ordinamento quanto all'intervento di organi  tecnici
e  del  personale  competente;  all'individuazione   delle   migliori
tecnologie  disponibili;  alla  partecipazione  di  enti  e  soggetti
diversi nel procedimento preparatorio e  alla  pubblicita'  dell'iter
formativo, che mette cittadini e comunita' nelle  condizioni  di  far
valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche  giudiziari,  nelle
ipotesi di illegittimita', i loro punti di vista. (...) 
    In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione tra un
atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa  (art.  1  del
decreto-legge n. 207 del 2012 determina  le  condizioni  e  i  limiti
della liceita' della prosecuzione di un'attivita' produttiva  per  un
tempo definito, in tutti i  casi  in  cui  uno  stabilimento  ...  di
interesse   strategico   nazionale   abbia   procurato   inquinamento
dell'ambiente,  al  punto   da   provocare   l'intervento   cautelare
dell'autorita'  giudiziaria.  La  normativa  censurata  non  prevede,
infatti,  la  continuazione  pura  e  semplice  dell'attivita',  alle
medesime  condizioni  che  avevano   reso   necessario   l'intervento
repressivo dell'autorita' giudiziaria, ma impone nuove condizioni, la
cui osservanza deve essere continuamente controllata,  con  tutte  le
conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i
comportamenti illecitamente lesivi della salute e dell'ambiente. Essa
e' pertanto ispirata alla finalita' di attuare un  non  irragionevole
bilanciamento  tra  i  principi   della   tutela   della   salute   e
dell'occupazione, e non al totale annientamento del primo. (...) 
    Tanto  la  norma  generale  appena  richiamata,   quanto   quella
particolare riferentesi  all'ILVA  di  Taranto,  ...  autorizzano  la
prosecuzione  dell'attivita'  per  un  periodo   determinato   ed   a
condizione dell'osservanza delle prescrizioni  dell'AIA  riesaminata.
La ratio delle  due  discipline  e'  dunque  che  si  proceda  ad  un
graduale, intenso processo di risanamento degli impianti,  dal  punto
di vista delle emissioni nocive alla  salute  e  all'ambiente,  senza
dover necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento,  con
conseguente nocumento per l'attivita' economica, che determinerebbe a
sua volta un elevato incremento del  tasso  di  disoccupazione,  gia'
oggi  difficilmente  sostenibile  per  i  suoi  costi   sociali.   Se
l'adeguamento  della  struttura  produttiva  non  dovesse   procedere
secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo,
sarebbe cura delle autorita' amministrative preposte al controllo - e
della  stessa  autorita'  giudiziaria,  nell'ambito   delle   proprie
competenze - di adottare  tutte  le  misure  idonee  e  necessarie  a
sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze.». 
    4.2. Se le cose stanno cosi', non occorre chissa'  quale  impegno
speculativo per rilevare che, invece, nel decreto-legge n. 92,  tutto
quello che la  Corte  chiede,  al  fine  di  ritenere  realizzato  un
ragionevole bilanciamento tra interessi costituzionali  in  conflitto
tra loro, e' completamente assente: manca perfino il  riferimento  ad
un provvedimento, mutatis mutandis, analogo all'AIA,  che  -  val  la
pena tenerlo a mente - rappresenta niente di piu' che il  presupposto
minimo, e percio' ineludibile, per l'accettabilita' costituzionale di
simili norme di legge («il punto di equilibrio contenuto nell'AIA non
e' necessariamente il migliore in assoluto  ...  ma  deve  presumersi
ragionevole»). 
    Nell'art. 3, infatti, per le ipotesi, come quella  in  esame,  di
sequestri relativi ad impianti di interesse strategico nazionale ed a
reati inerenti alla sicurezza dei lavoratori,  l'Esecutivo  ha  posto
soltanto due limiti alla prosecuzione dell'attivita'  d'impresa:  uno
di tipo meramente cronologico, ovvero la durata non superiore  ad  un
anno; l'altro, consistente nell'onere, da parte dell'impresa,  in  un
dato termine, di predisporre un «piano  recante  misure  e  attivita'
aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della  sicurezza
sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento
di sequestro». Punto. 
    Nulla  si  dice,  innanzitutto,  sulla  natura  di  tali  «misure
aggiuntive»: che quindi potrebbero essere rappresentate, in  ipotesi,
anche soltanto da  meri  cartelli  di  segnalazione,  dispositivi  di
protezione individuale, prassi operative od altri strumenti  (come  i
rudimentali  ed  estemporanei  pannelli  metallici  che  l'ILVA  s'e'
affrettata a piazzare dopo la  tragedia  morte  dell'operaio  M.  del
tutto  insufficienti  a  garantire  adeguatamente  la  sicurezza  dei
lavoratori  (sul  punto,  sia  consentito  rinviare  al  decreto   di
sequestro preventivo del 29 giugno scorso). 
    Non si esplicita, in particolare, a differenza di quanto e' stato
previsto  con  l'AIA  per  la  materia  ambientale,   l'obbligo   per
l'azienda, seppur diluito in un termine piu' o meno consistente,  che
le «misure aggiuntive» siano quelle conformi alle migliori tecnologie
disponibili (le quali - anche qui e' bene ricordarlo -  rappresentano
il parametro di riferimento sia per quanto concerne la fattispecie di
cui all'art. 437, codice penale,  che  per  il  dovere  di  diligenza
necessario ad escludere la responsabilita' nei  reati  colposi,  come
appunto quello di cui all'art. 589, codice penale). Ne deriva che  il
dettato del cit. art.  3  risulterebbe  rispettato,  con  conseguente
diritto alla prosecuzione dell'attivita' produttiva, pur quando  esse
fossero del tutto inadeguate od insufficienti. 
    Ancor  prima,  anzi,  non  e'   contemplata   alcuna   forma   di
partecipazione, da parte delle competenti amministrazioni  pubbliche,
nella elaborazione del piano di  intervento  aziendale,  in  completa
distonia,  anche  sotto  questo  profilo,  rispetto  alla   complessa
procedura prevista dalla legge per l'AIA. 
    Ed ancora: nessuna forma di controllo e' stata prevista non  solo
- come s'e' appena detto - sui contenuti  del  piano  aziendale,  ma,
addirittura, neppure sull'effettiva attuazione dello stesso. Infatti,
l'azienda e' stata  onerata  (nemmeno  obbligata,  con  le  eventuali
sanzioni  correlate)  soltanto  di  comunicare  il  piano  ad  alcune
autorita' amministrative, mentre all'autorita' giudiziaria procedente
- chissa' perche'  -  neppure  quello,  bensi'  soltanto  la  notizia
dell'avvenuta predisposizione di esso. 
    In ogni caso, se e' previsto che Vigili del fuoco, ASL ed  INAIL,
ciascuno per le rispettive competenze, «devono garantire un  costante
monitoraggio delle aree di produzione  oggetto  di  sequestro,  anche
mediante  lo  svolgimento   di   ispezioni   dirette   a   verificare
l'attuazione  delle  misure  ed  attivita'  aggiuntive  previste  nel
piano», nulla e' detto per il caso in cui,  all'esito  di  tali  loro
attivita', quegli enti accertino  l'insufficienza  o  l'inadeguatezza
degli interventi  aziendali,  od  anche,  semplicemente,  la  mancata
realizzazione di quanto indicato  nel  piano.  Non  e'  riconosciuta,
ossia, ne' a tali istituzioni di controllo,  e  men  che  mai  ad  un
giudice, ordinario od amministrativo che voglia essere,  la  potesta'
di  sollecitare  l'integrazione  di  tali  misure  o   di   applicare
qualsivoglia tipo di sanzione. 
    Manca,  dunque,  pure   la   predisposizione   di   un   apparato
sanzionatorio, invece previsto dal decreto-legge 3 dicembre 2012,  n.
207, ed anzi da questo rafforzato,  che,  nella  trama  argomentativa
della  Corte  costituzionale,  ha   rappresentato   uno   dei   punti
qualificanti   per   individuare    nell'AIA,    cosi'    congegnata,
l'accettabile punto di equilibrio per il sacrificio dei diritti della
persona costituzionalmente protetti. 
    Se, allora, ci si sofferma, e nemmeno  troppo,  sulla  disciplina
introdotta dalla norma qui in rassegna, e'  agevole  notare  com'essa
contenga un meccanismo di paralisi degli effetti di un  provvedimento
di sequestro dell'autorita'  giudiziaria,  attivabile  ad  nutum  dal
destinatario dei medesimo, col solo onere di  comunicarlo  ad  alcuni
enti. 
    E' oggi consentito per legge, ossia,  nell'ordinamento  italiano,
che un'azienda, se d'interesse strategico nazionale, possa continuare
a svolgere la propria attivita',  anche  quando  tale  esercizio  sia
suscettibile di aggravare o protrarre le conseguenze di un reato,  se
non addirittura - come nella specifica ipotesi oggetto di giudizio  -
costituisca esso stesso reato, e che cio'  essa  possa  fare  per  un
anno, soltanto limitandosi a predisporre e  comunicare  un  piano  di
interventi  ad  alcuni  enti  pubblici,  che  non   possono   nemmeno
sindacarne contenuti ed attuazione. 
    Su un assetto normativo siffatto,  che  si  vorrebbe  ispirare  a
quello del decreto-legge n. 207/2012 ma che non gli somiglia affatto,
se non nell'obiettivo di neutralizzare gli effetti di  una  pronuncia
giurisdizionale,  s'impone,  dunque,  al  giudice  di   invocare   lo
scrutinio di legittimita'. 
    Sia la Corte costituzionale a dire se una legge di tal fatta  sia
o meno compatibile con la nostra Carta fondamentale dei diritti. 
    4.3 Venuto meno,  anzi,  piu'  precisamente,  non  essendo  stato
proprio previsto,  nell'art.  3  del  decreto-legge  n.  92/2015,  un
ragionevole punto di bilanciamento,  quanto  meno  analogo  a  quello
ravvisato nell'AIA per la disciplina introdotta nel 2012  in  materia
ambientale, appare evidente - od almeno non manifestamente infondato,
in coerenza il limite della cognizione spettante al giudice del fatto
- che la compressione di alcuni interessi  di  rango  costituzionale,
indiscutibilmente realizzata dalla normativa  in  rassegna,  non  sia
giustificata e sia, dunque, illegittima. 
    4.3.1.  Dubbi  di  legittimita'  sussistono,  innanzitutto,   con
riferimento all'art. 2 della Costituzione, che  impegna  lo  Stato  a
riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo. 
    Sara' pure vero - come ha spiegato la Corte costituzionale  nella
dianzi  citata  sentenza  n.  83  del  2013  -  che  tra  i   diritti
riconosciuti e tutelati dalla Costituzione non si possa stabilire una
gerarchia; ma e' altrettanto indiscutibile, perche' lo  dice  apertis
verbis l'art. 2, che alcuni di quelli sono «inviolabili». Se ne  deve
coerentemente desumere che essi debbano godere di una tutela, se  non
assoluta ed incondizionata,  quanto  meno  privilegiata  o  -  se  si
preferisce - rafforzata, rispetto ad altri  interessi  costituzionali
che inviolabili non siano: con l'ulteriore  conseguenza  per  cui  il
punto di equilibrio dell'eventuale conflitto tra gli uni e gli  altri
debba essere collocato quanto piu' vicino ai primi. 
    Ebbene,  semmai  fosse  consentito  di  riconoscere   il   crisma
dell'inviolabilita'  soltanto  ad  uno  dei   diritti   riconoscibili
all'uomo, questo diritto non potrebbe essere che quello alla vita  ed
all'incolumita'     individuale,     rappresentando     tali     beni
l'imprescindibile presupposto per l'effettivo godimento di tutti  gli
altri  diritti   della   persona,   a   cominciare   dalle   liberta'
fondamentali, consacrate dagli articolo da 13 a 21 della Carta. 
    La disciplina dell'art. 3, decreto-legge  n.  92/2015,  pertanto,
consentendo l'esercizio dell'attivita' d'impresa pur in  presenza  di
impianti pericolosi per  la  vita  o  l'incolumita'  umana  (come  la
tragica vicenda dell'operaio  purtroppo  attesta),  senza  pretendere
dall'azienda l'adeguamento degli stessi alle piu' avanzate tecnologie
di sicurezza, pare collidere con tale principio costituzionale. 
    4.3.2.  Altrettanto  dicasi  in  relazione   all'art.   3   della
Costituzione. 
    Il trattamento  di  favore  che  il  decreto-legge  riserva  alle
aziende di interesse strategico nazionale, in  assenza  di  qualsiasi
meccanismo di sollecitazione e di controllo delle stesse al fine  del
piu' rapido adeguamento  dei  relativi  impianti  agli  standards  di
sicurezza  imposti  dalla  legge  agli  altri  operatori   economici,
rappresenta,  invero,  un  ingiustificato  privilegio,   lesivo   del
principio costituzionale di uguaglianza. 
    Correlativamente, l'esposizione dei lavoratori, in tali  aziende,
a fattori di rischio piu' elevato costituisce anch'essa una forma  di
diseguaglianza, ad ingiustificato detrimento di costoro  rispetto  ai
cittadini che svolgono analoghe mansioni in aziende non strategiche. 
    4.3.3.  I  dubbi  di  legittimita'  non   paiono   manifestamente
infondati neppure con riferimento all'art. 4 della Costituzione,  che
«riconosce a tutti i cittadini il diritto al  lavoro  e  promuove  le
condizioni che rendano effettivo questo diritto»". 
    Prima ancora di fondare «l'interesse costituzionalmente rilevante
al  mantenimento  dei  livelli  occupazionali  ed  il  dovere   delle
istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso» (come  la
Corte  costituzionale  s'e'  curata  di  precisare  nella   ricordata
sentenza n. 83), tale norma sta li',  non  a  caso  tra  i  «principi
fondamentali», per sancire il  diritto  al  lavoro  di  ogni  singolo
cittadino,  ribadendone  la  rilevanza  centrale,  in  coerenza   con
l'enunciato d'esordio della stessa Carta: «L'Italia e' una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro». 
    Ma - la precisazione appare fin troppo  ovvia,  o  forse  non  e'
cosi' - il «diritto al lavoro» non rende legittima la prestazione  di
un'attivita' lavorativa, quale che essa sia  e  quali  che  siano  le
condizioni in cui la stessa si svolga. Esso impone, in primo luogo  e
quale presupposto essenziale e inderogabile, che il lavoratore  operi
in condizioni di massima sicurezza. 
    In tal senso, del resto, la  conferma  piu'  eloquente,  ove  mai
necessaria, si rinviene  nella  cura  con  cui  i  costituenti  hanno
ribadito che «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni» (art. 35, comma 1), altresi'  prevedendo  espressamente
una serie di diritti - per cosi' dire  -  accessori  e  funzionali  a
garantirgli «un'esistenza libera  e  dignitosa»  (equa  retribuzione,
formazione ed elevazione professionale, durata massima della giornata
lavorativa,  riposo   settimanale,   ferie   retribuite,   assistenza
previdenziale e cosi' via: articoli 35 - 38). 
    Anche rispetto a tale  generale  dovere  di  tutela  del  lavoro,
dunque, l'art. 3 del decreto-legge n. 92,  cosi'  com'e',  appare  in
insanabile contrasto. 
    4.3.4. Altrettanto e' a dirsi in relazione all'art. 32, comma  1,
Cost., ed al «diritto alla salute», ivi consacrato. 
    In proposito, basterebbe  rammentare  le  argomentazioni,  dianzi
testualmente riportate, con le quali la Consulta ha riconosciuto come
non lesiva di esso la disciplina del  decreto-legge  n.  207/2012.  A
siffatto approdo, infatti, la Corte e' giunta -  come  s'e'  visto  -
solo sul presupposto del soddisfacente contrappeso  costituito  dalla
procedura di AIA, ed altresi' con  riferimento  ad  un  diritto  alla
salute  inteso  come  pretesa,  costituzionalmente  riconosciuta,  al
benessere psicofisico dell'uomo ed alla salubrita'  dell'ambiente  in
cui questi vive. 
    Nella fattispecie che qui interessa, invece, non  soltanto  manca
qualsiasi istituto o procedura che possa essere  paragonato  all'AIA,
ma altresi' il bene in pericolo e'  rappresentato  non  gia',  o  non
solo, dal generico  benessere  psicofisico,  quanto  piuttosto  dalla
stessa vita e dall'incolumita' individuale del cittadino-lavoratore. 
    Sembra francamente incontestabile, allora, che, anche  su  questo
punto,  il  ragionevole  bilanciamento  fra  diritti  costituzionali,
postulato dalla Corte, manchi del tutto. 
    4.3.5.   Ulteriore   profilo   di   incostituzionalita'    appare
ravvisabile con riferimento all'art. 41, comma 2,  della  Carta,  la'
dove si afferma che l'attivita' economica privata «non puo' svolgersi
... in modo da recare  danno  alla  sicurezza,  alla  liberta',  alla
dignita' umana». 
    Un  impianto  industriale,  come  l'altoforno  «Afo/2»,  che   ha
provocato l'atroce morte di un operaio e che  -  come  risulta  dagli
atti del procedimento - ha  manifestato  anche  nei  giorni  seguenti
pericolose  disfunzioni,   con   massive   dispersioni   di   materie
incandescenti, e'  un'offesa  alla  sicurezza,  alla  liberta',  alla
dignita' umana di chi vi lavora. 
    Consentire - come il decreto-legge prevede - che esso continui ad
operare, ancorche' soltanto per un periodo di tempo limitato, nemmeno
in presenza di non ben  definite  «misure  e  attivita'  aggiuntive»,
bensi' soltanto di un  progetto  di  esse,  peraltro  unilateralmente
predisposto  dall'azienda   interessata   e   non   sindacabile   ne'
controllabile  da  altri,  collide  frontalmente  -  ad  avviso   del
sottoscritto giudice - col divieto di cui al predetto art. 41,  comma
2. 
    4.3.6. L'intervento del Giudice delle leggi, infine, si  presenta
indispensabile riguardo ad un ultimo profilo. 
    L'art. 112, Cost., affermando il  principio  dell'obbligatorieta'
dell'azione penale da parte del  pubblico  ministero,  implicitamente
conferisce rango e tutela costituzionale,  laddove  necessario,  alla
potesta' punitiva dello Stato, come  indirettamente  confermato,  del
resto,  dai  reiterati  ed  espressi  riferimenti  all'atto  motivato
dell'autorita' giudiziaria», quale imprescindibile presupposto per la
limitazione delle liberta' fondamentali del cittadino. 
    Tale potere-dovere, con altrettanta evidenza logica, si  dispiega
necessariamente in due direzioni: la repressione dei reati, ma  anche
la loro prevenzione. Sarebbe del tutto irrazionale, infatti,  imporre
di reprimere e sanzionare i reati, che rappresentano  le  condotte  a
piu' elevata valenza perturbatrice degli  equilibri  della  comunita'
sociale, ed invece non renderne altrettanto doverosa la  prevenzione.
Ne consegue che l'art. 3  del  decreto-legge  n.  92/2015,  la'  dove
consente la prosecuzione dell'attivita' produttiva anche in  presenza
di misure di protezione dei lavoratori  non  conformi  alla  migliore
scienza ed esperienza del settore, e percio' permette il  perpetuarsi
di una situazione penalmente rilevante (quanto meno ai fini dell'art.
437, codice penale, e, in caso di incidenti, anche degli articoli 589
e  590,  codice  penale),  privando  di  efficacia  i   provvedimenti
preventivi  doverosamente  adottati  a  tal  fine  dalle   competenti
autorita'   giudiziarie,   va   ad   incidere   su   tale    potesta'
costituzionale. E, nella verosimile assenza di un  ragionevole  punto
di equilibrio, lo fa illegittimamente. 
    4.3.7.   E'   manifestamente   infondata,   invece,   l'eccezione
d'illegittimita' costituzionale  dei  citato  art.  3,  in  relazione
all'art. 77, comma 2, Cost., pure proposta dal pubblico ministero. 
    I  dubbi  di  quest'ultimo,  in  ordine   alla   ricorrenza   dei
presupposti che legittimano il Governo a ricorrere allo strumento del
decreto-legge  («casi  straordinari  di  necessita'  e   d'urgenza»),
costituiscono  il  precipitato  dell'assunto  -  fatto   proprio   da
quell'autorita' giudiziaria - per  cui  la  disciplina  cosi'  varata
possa trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui il provvedimento
giudiziario renda impossibile l'esercizio dell'attivita' d'impresa. 
    Cosi', pero', non e', per  le  ragioni  piu'  sopra  diffusamente
spiegate. 
    A  tanto   aggiungasi   che   -   per   costante   giurisprudenza
costituzionale - «l'esistenza dei  requisiti  della  straordinarieta'
del caso di necessita e d'urgenza,  che  legittimano  il  Governo  ad
adottare, sotto la sua responsabilita', provvedimenti provvisori  con
forza di legge, che perdono efficacia  se  non  convertiti  in  legge
entro  sessanta  giorni,  puo'  essere  oggetto   di   scrutinio   di
costituzionalita',  in  quanto,  secondo  la   nostra   Costituzione,
l'attribuzione della funzione legislativa  al  Governo  ha  carattere
derogatorio rispetto all'essenziale attribuzione al Parlamento  della
funzione di porre le  norme  primarie  nell'ambito  delle  competenze
dello Stato centrale. Il predetto accertamento non sostituisce e  non
si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del
Parlamento in sede di conversione - in cui le  valutazioni  politiche
potrebbero essere prevalenti - ma deve svolgersi su un piano diverso,
con la funzione di preservare l'assetto delle fonti normative e,  con
esso, il rispetto dei valori a tutela  dei  quali  detto  compito  e'
predisposto. Inoltre, poiche' la straordinarieta' del caso,  tale  da
imporre la necessita'  di  dettare  con  urgenza  una  disciplina  in
proposito, puo' essere dovuta ad una pluralita' di situazioni (eventi
naturali,  comportamenti  umani  e  anche  atti  e  provvedimenti  di
pubblici poteri) in  relazione  alle  quali  non  sono  configurabili
rigidi  parametri,  valevoli  per  ogni  ipotesi,  il   difetto   dei
presupposti di legittimita' della decretazione d'urgenza puo'  essere
oggetto di scrutinio di costituzionalita',  solo  quando  risulti  in
modo evidente» (cosi', Corte costituzionale,  sentenza  n.  171/2007;
vds. pur sent. n. 29/1995). 
    Nel caso specifico, dunque,  trattandosi  di  questione  comunque
incidente sull'attivita' di uno stabilimento dichiarato  dalla  legge
come «di interesse strategico nazionale»,  non  risulta  evidente  il
difetto di tali requisiti e, dunque, non si  pone  extra  ordinem  il
ricorso del Governo allo strumento del decreto-legge. 
    5. In conclusione, quindi, l'incidente di esecuzione promosso dai
difensori di «ILVA s.p.a. in a.s.», con istanza dell'8  luglio  2015,
presupponendo  necessariamente   l'applicazione   dell'art.   3   del
decreto-legge  4  luglio  2015,  n.  92,  non  puo'  essere  definito
indipendentemente dalla verifica della legittimita' costituzionale di
quest'ultimo. 
    La questione di legittimita' costituzionale di tale norma risulta
non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 2 - 3 - 4  -
32, comma 1 - 35, comma 1 - 41, comma 2 - 112 della Costituzione. 
    Di  conseguenza,  il  presente  giudizio  incidentale  dev'essere
sospeso  e   gli   atti   debbono   essere   trasmessi   alla   Corte
costituzionale.